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Ecco il libro che ha il taglio, anche stilistico, di un reportage giornalistico: assoluta dominanza delle immagini, semplicità ed efficacia del commento scritto. C’è l’argomento: il centro storico di Firenze, la città di Cavalcanti e di

Il piano del 1885 decreta lo sventramento della città. Ritrovate le immagini scattate allora che si credevano perduteEcco il libro che ha il taglio, anche stilistico, di un reportage giornalistico: assoluta dominanza delle immagini, semplicità ed efficacia del commento scritto. C’è l’argomento: il centro storico di Firenze, la città di Cavalcanti e di Cimabue, di Giotto e di Dante Alighieri, distrutta per decreto municipale. C’è lo “scoop”: un blocco di oltre trecento lastre fotografiche eseguite tra il 1892 e il ’95 per documentare i palazzi e le case prima e durante le demolizioni. Lastre che si credevano perdute e sono state ritrovate negli archivi del Gabinetto Fotografico della Soprintendenza fiorentina al Polo Museale. C’è infine l’autore: Maria Sframeli, la studiosa che ha pubblicato nel 1989 il fondamentale volume sul centro storico demolito. Il risultato è un libro fotografico affascinante e agghiacciante perché è il documento di una delle perdite in assoluto più gravi subite dal patrimonio culturale italiano negli anni che vanno dall?unità ai nostri giorni. Il piano regolatore del 2 aprile 1885 decretò la distruzione del nucleo medioevale di Firenze sorto sulle rovine della antica colonia romana. Si trattava di un quadrilatero vasto decine di ettari compreso fra le attuali via Porta Rossa, via Cerretani, via de’ Pescioni, e via Calzaioli, un’area che aveva il suo centro nella piazza del Mercato, l’antico Foro romano, attuale piazza della Repubblica, e che comprendeva palazzi e torri, piazze e strade, chiese, confraternite, il ghetto degli ebrei, uno dei più importanti d’Europa, e le sedi delle Arti. Ragioni di decoro urbano e di controllo sociale (nelle case del centro storico, in condizioni abitative terribili, si addensava un proletariato urbano turbolento e ingovernabile) ma anche pesanti interessi di speculazione edilizia, giustificarono la sciagurata decisione. Al posto della porzione di città implacabilmente sventrata, rasa al suolo e ricostruita negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, prese forma il centro di Firenze che conosciamo. É la città i stile neorinascimentale (Uno stile esemplato sugli affreschi del Ghirlandaio in Santa Maria Novella e declinato secondo criteri di sussiegoso decoro borghese tipico dell’età umbertina) che oggi ospita i negozi di lusso, le vetrine della moda, gli studi professionali più prestigiosi. È la città che la lapide memoriale collocata in cima all’arcone di piazza della Repubblica celebra con la nota epigrafe sul, centro storico «da secolare squallore a vita nuova restituito». Di fronte a quella frase stolida e pomposa nascono spontanee le domande alle quali neppure la più vasta letteratura raccolta negli anni ha saputo dare risposte fino in fondo convincenti. Come si potevano far sparire le piazze e le strade percorse da Brunetto Latini e da Paolo Uccello, le botteghe frequentate da Brunelleschi, le case abitate dalle famiglie che avevano fatta grande Firenze (i Medici, gli Strozzi, i Sassetti, i Della Luna), i tabernacoli citati dal Vasari, le venerabili chiese antiche come la città romana (Santa Maria in Campidoglio), le residenze delle Arti: i Medici e gli Speziali, gli Albergatori, i Rigattieri, gli Oliandoli e Pizzicagnoli, i Linaioli e i Sarti nella cui sede era ospitata la grande pala dell’Angelico oggi nel Museo di San Marco? Com’è potuto accadere tutto ciò in una città che era stata capitale politica della nazione fino a pochi anni prima e che capitale delle arti e delle lettere voleva essere e da tutti (intellettuali, storici, letterati, stranieri in primis) era riconosciuta essere? Sorprende che la distruzione e successiva ricostruzione siano avvenute in tempi rapidissimi e che le proteste, le prese di posizione, i distinguo, siano stati sporadici e, tutto sommato, di modesta entità. Quelli erano, tuttavia, tempi di storicismo e di filologismo. Demolire il centro storico medioevale era necessario. Lo volevano la civiltà, il progresso, l’igiene e il decoro. La storia però aveva i suoi diritti. Bisognava quindi documentare quello che si demoliva e conservare in un museo i frammenti più significativi dl grande abbattimento: affreschi staccati, stemmi, capitelli, iscrizioni. Una commissione all’interno della quale c’erano studiosi e archivisti del calibro di Gaetano Milanesi e di Guido Carocci, fu incaricata della documentazione e della selezione. Dobbiamo al loro lavoro i materiali arrivati fino a noi: il sinistro ossario dei relitti lapidei radunato dal Carocci in San Marco, faldoni di relazioni stipati negli archivi, una certa quantità di disegni, di rilievi, di foto. Il nucleo iconografico più cospicuo è costituito dalle 329 foto che si credevano perdute e che ora Maria Sframeli pubblica.
Data recensione: 05/08/2007
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore
Autore: Antonio Paolucci