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L’io narrante e personaggio principale del romanzo-racconto, “Vedrò la città che ha terrazze color delle stelle?”...

L’io narrante e personaggio principale del romanzo-racconto, “Vedrò la città che ha terrazze color delle stelle?” Salvatore Saracino, è uno dei marinai fuochisti della Regia Marina Italiana, che si trovarono sbattuti, in piena guerra civile, negli anni del “biennio rosso” (1919-1920), nella Toscana estremista e radicale, nell’Empoli rossa e fascista, e furono oggetto di montagna di odio e di ferocia, gonfiata ad arte dagli uomini e dal caso.
Salvatore, scrive Luca Terreni, aveva un particolare talento nel valutare, con qualsiasi tempo, “che ora del giorno fosse”, ma del suo talento “non fregava niente a nessuno perché il popolo di Napoli vive con i tempi del cuore e non con quelli della necessità”. Mi piace evidenziare questa caratteristica di Salvatore come un tratto della sua napoletantità, insieme al nume del Vesuvio “che tutto controlla e tutto veglia” sul destino degli uomini secondo i luoghi della nascita. E la bellezza è una costante che accompagna i pensieri e la filosofia di Salvatore. Una bellezza consolatrice che ripaga una vita agra.
Le linee del romanzo procedono per ambientazioni: Napoli, Spezia, Livorno, Empoli; premonizioni: “stai attento Salvato’ che la guerra non è ancora finita”. E qui c’è l’allusione della madre alla guerra civile: rossi contro neri; il vento di libeccio nella camerata dell’Accademia a Livorno: “Quel vento aveva una voce triste e lontana che cresceva fino a diventare un urlo.” è un vento di morte; Ci sono indizi di ostilità: “il passaggio di una motocicletta rombante”… che supera i camion; davanti a un teatro (penso al Goldoni) gente con sguardi brutti, “Ci hanno urlato contro”, “non si vede anima viva” lasciata Livorno. Strade deserte, qualcuno scrutava con curiosità. Affiorano notizie di uccisioni e vendette reciproche: uccisione del sindacalista Spartaco Lavagnini da parte di fascisti. E di Giovanni Berta giovane fascista precipitato giù da una passerella sull’Arno.
I luoghi di questo “Vedrò la città che ha terrazzi color delle stelle?” sono prima di tutto i luoghi di Napoli: Vico Storto, Sant’Anna di Palazzo, Santagnello di Sorrento, Chiaia. Si tratta di una Napoli povera ma dignitosa, pervasa da un grande spirito di solidarietà. Terreni possiede una buona capacità mimetica ed una empatia che gli permettono di penetrare nella psicologia dei personaggi e nelle situazioni più varie con sincerità ed eleganza. Un tocco magistrale è quello (p.26) della raccomandazione della madre, a Salvatore, in procinto di doversi imbarcare. «Mia madre si alzò del suo silenzio, si avvicinò e poggiò la mano sulla mia spalla. “Salvato’…” Mi voltai verso di lei ed affondai nei suoi occhi. Erano vermigli, e risaltavano come due fari accesi tra l’incarnato bianco come cera di candele e le sopracciglia nere. L’angoscia si era impadronita di quegli occhi. “Stai attento Salvato’, che la guerra non è ancora finita.” Calò il silenzio. Gennarino smise di giocare e fissò lo sguardo pallido verso di lei. “I rossi contro i neri, e pure contro il re. Questa guerra ce la dobbiamo soffrire ancora” disse
In questi paesaggi si respira l’atmosfera della guerra civile in atto e delle ferite ancora aperte dalla Grande Guerra ’15-’18. Si respira anche lo spirito della solidarietà familiare: tutti intorno ad Antonietta, una singolare figura di fattucchiera che non sbaglia mai, consultata per Salvatore in partenza per una missione che si profila pericolosa. “Rosa, devi dire a Salvatore che la guerra non è finita. I rossi hanno in testa la rivoluzione come nella Russia. La Russia è lontana ma quelli la vogliono vicina.” […]
Alla Spezia, all’arsenale militare, nel gennaio e febbraio 1921, si dispiega la capacità descrittiva di Terreni, dal tempo atmosferico, al paesaggio: il mare, con i colori dell’inverno mi sembrò magnifico. Ondeggiava e spumeggiava in lontananza… Piazza Brin, con i molti porticati. Si intrecciano schiette amicizie con Giovanni, allievo fuochista, spezzino; con Vincenzo, anche lui fuochista che veniva da Napoli. Chiacchiere da marinai. Poi le amicizie con le ragazze del collegio protestante e fra queste l’affetto con Carolina, la visita ad un orfanotrofio. Tutto si svolge con grande naturalezza e umanità. Siamo sul golfo dei poeti: Byron, Shelley. In questo clima amoroso e idilliaco, tuttavia si riaffaccia la storia della sua cruda realtà: l’occupazione delle fabbriche, la reazione fascista, la prossima partenza per Firenze, in treno, passato per Livorno.
Le trame del romanzo si intrecciano, si snodano, fino a confluire nel climax dell’agguato nella cittadina di Empoli, dove protagonista è l’odio. Un odio profondo coltivato nell’atmosfera della lotta di classe, nell’eco della rivoluzione leninista: “tutto il potere ai soviet”. Per il proletariato empolese, ragioni da vendere, per la borghesia cittadina e agraria paure da combattere. E su tutto la massa, la furia cieca della massa che travolge ogni cosa, non sente ragioni, evidenze, implorazioni scaturite dal cuore. Furono coinvolte centinaia di persone e in questo tumulto poco poté la conclamata innocenza dei marinai e dei carabinieri, figli di popolo usati da un regime ottuso. Perché i marinai furono privati delle divise? Perché chi sapeva propagò il falso? Prevalse la volontà barricadiera e rivoluzionaria a oltranza? Luca Terreni guida i suoi personaggi: i quarantasei marinai: siciliani, veneti, romani, napoletani, su due camion 18bl, nelle pieghe della storia, con una sapiente psicologia individuale e collettiva. La tragedia, nel contesto drammatico e violento, in questo trabocco di odio, è trattata con una dose di pietas, senza negare o imbrogliare le carte, senza riscrivere la storia ad uso di qualcuno o di qualcosa. La sua è una scrittura onesta e nello stesso tempo partecipe degli avvenimenti, soprattutto nel momento culmine dell’agguato in Empoli. “D’improvviso una grandine di colpo e un frastuono micidiale squarciarono il silenzio con un fragore di un tuono.” “Rumore sordo delle armi… Azioni convulse, la morte. “Salvato’ ci ammazzano ma che ci abbiamo fatto a questi?”… tragico equivoco. Fucili, forconi, bastoni, pietre, la folla imbestialita. “È un tragico errore!”… fu inutile dirlo. Urla: “Qui comandano le Guardie Rosse!!” Due giovani si fanno largo tra la folla, qualcuno è portato in salvo dentro al Municipio. Per lo shock Salvatore aveva visioni e la realtà si deformava: “I cieli non sembravano avere una fine e le terrazze avevano il colore delle stelle”. Infine il ricovero al San Giuseppe, l’ospedale di Empoli dove viene curato amorevolmente.
Nell’epilogo Salvatore si ritrova nella sua Napoli, ad un Caffè con musica dal vivo. Dei vecchi compagni Fioretti e Mario erano morti ammazzati. Molti lo vengono a trovare, si rinnovano affetti, il dolore del ricordo, il calore del sogno e la bellezza del silenzio “da assaporare come una cosa rara e preziosa”, il silenzio che ripaga dell’odioso frastuono dell’agguato, una compensazione della bruttura della morte attraversata. Salvatore è vivo, guarito ma acciaccato nel corpo e nell’anima. Tuttavia non c’è odio né risentimento. La sorte è accettata, come il dolore delle ferite che guariranno. In questo epilogo emerge la filosofia di Salvatore che è un emblema dell’anima napoletana fatta di accettazione del destino e di quello che può offrire la bellezza sia della musica, sia dei corpi delle ragazze, sia del paesaggio. E Salvatore non vedrà “la città che ha terrazze color delle stelle ”, lo aspetta l’imbarco per la Spezia, una realistica partenza che pare lasciarsi dietro i sogni come l’ultimo della grande nave con la quale “avrebbe attraversato l’Atlantico”. Con questo sogno rimandato, ma non la speranza di attuarlo, si chiude questo racconto/romanzo che lascia nel lettore amare testimonianze, riflessioni, abissi di paura ma anche segnali di bellezza.
Certamente, per dirlo con Lia Marianelli, questo di Luca è un romanzo di formazione, ma con molto di più: la storia e la vita fuse insieme dalla forza della poesia e dal fantastico. Per questo, in chiusura, voglio citare alcuni passaggi dal ricovero di Salvatore Saracino all’ospedale di Empoli. “E con una portantina mi vennero a prendere e mi misero ai piedi un paio di scarpe bianche come la spuma del mare, poi mi vestirono come un re. E mi depositarono sul sedile all’interno della carrozza (…) Non fermarti cocchiere, non fermarti! (…) Un tracciante luminoso e ci apparve una città magnifica piena di campanili, di case torre e di marmi e di statue che ogni cosa sembrava creata dallo spirito e non dalla mano fredda degli uomini. E fu come affacciarsi sulla vera ricchezza. Dalle chiese e dai teatri sgorgava una musica sublime, dalle finestre aperte spuntavano tanti quadri di Madonne e sotto ai ponti disegnati dall’armonia l’acqua si spandeva e formava ghirigori lucenti come rosari d’argento. Un nitore abbagliante mi circondava. I cieli non sembravano avere una fine e le terrazze avevano il colore delle stelle.”
Data recensione: 01/07/2023
Testata Giornalistica: Erba d’Arno
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