Caterina Ceccuti è da anni un nome noto sia nell’ambito della narrativa sia del giornalismo, vincitrice nel 2015 del Fiorino d'oro
Caterina
Ceccuti è da anni un nome noto sia nell’ambito della
narrativa sia del giornalismo, vincitrice nel 2015 del Fiorino d'oro per la
narrativa edita con La generatrice di miracoli (Mauro Pagliai, 2014), e
tra gli otto finalisti del Premio Viareggio Repaci nel 2020, con T'insegnerò
la notte (Mauro Pagliai, 2020), ha ricevuto numerosi riconoscimenti e sulla
sua opera hanno scritto critici del calibro di Pietro
Spirito e Ernestina
Pellegrini. Autrice di numerose pubblicazioni, scrittrice
appassionata di romanzi, giornalista attenta ai problemi sociali, Caterina è
anche vicepresidente di Voa Voa Amici di Sofia aps, associazione che si occupa
di sostenere famiglie colpite da malattie rare orfane di cure. È proprio il
ruolo che è stata dolorosamente chiamata a ricoprire, ossia quello di madre di
una bimba gravemente ammalata, a tornare nella vicenda alla base del suo ultimo
romanzo Nero addosso, edito da Mauro Pagliai e uscito appena qualche
giorno fa. Un romanzo breve, vibrante, intenso, che vede come protagonista una
pittrice, Lidia, il cui figlio è misteriosamente scomparso, l’ex-marito Massimo
e un bambino dal presente complesso e drammatico. Abbiamo rivolto a Caterina
alcune domande.
Caterina, qual è la genesi del tuo libro?
“Nero addosso non ha avuto una genesi semplice.
Avevo questa storia nella testa da molto tempo, ma non sapevo come raccontarla.
Ho iniziato a farlo almeno tre volte, cancellando via via i file per
insoddisfazione. Volevo descrivere bene tutto: emozioni, personaggi, trama,
ambientazione. Ma, rileggendo, la cosa non funzionava per niente, non
assomigliava neppure lontanamente all’effetto finale che avrei voluto ottenere.
Un giorno ho pensato che forse il problema ero io, cioè il fatto di volermi
interporre tra i personaggi e il lettore. Allora ho lasciato che ciascun
protagonista si raccontasse da solo, usando le poche e semplici parole che – se
fosse stato vivo – avrebbe utilizzato davvero. Lidia, Ric, Massimo e Alejandro
parlano da soli ai lettori, ognuno come sa fare, senza bisogno che io mi metta
nel mezzo. Nel giro di poche settimane il romanzo è nato: piccolo, essenziale,
concentrato, duro, forse troppo duro, ma reale. Ed è esattamente come volevo
che fosse: spietato, come solo la realtà sa essere”.
Quale messaggio vuoi trasmettere attraverso la storia di Lidia?
“Una richiesta di
attenzione nei confronti delle donne, delle madri, che si trovano a subire una
perdita o un distacco dolorosi, come la morte di un figlio o il rapimento. In
questo caso la richiesta di cure è indirizzata alle persone che le circondano,
chiamate a giocare il ruolo più difficile: quello di aiutarle a sopravvivere,
spronandole delicatamente a riprendere nel tempo il contatto con il mondo che
ancora, nonostante tutto, le circonda. Ma nel rispetto assoluto di una dimensione
emotiva e psicologica devastata, che non esaurisce la propria sofferenza nel
momento in cui la tragedia accade ma che, caso mai, da quel punto in poi inizia
a diffondere un veleno destinato a pervadere e infettare tutto: memoria,
presente, futuro”.
Uno dei temi del tuo romanzo è lo sfruttamento minorile: perché questa
scelta?
“I piani narrativi di Nero addosso sono molteplici. Quello che più prepotentemente si
palesa al lettore, come dicevo prima, è legato alla donna e alla sua perdita.
Ma ne esistono altri, come la condizione dello sfruttamento e dell’abuso di
minori, un argomento che fa paura e sconvolge anche solo a sentirlo nominare.
Una realtà drammatica che non bisogna necessariamente andare ad incontrare dall’altra
parte del mondo, perché esiste anche a casa nostra. Nel libro cerco di
raccontare, o per meglio dire tracciare qualche linea di contorno rispetto ad
una condizione umana infantile, vissuta da un giovanissimo uomo cresciuto
troppo in fretta, che si dimostra incredibilmente forte e, tutto sommato,
equilibrato di fronte all'abominio che sta subendo. Ma non mancano i J'accuse rivolti alle persone qualunque che lo circondano e che
lui percepisce indifferenti rispetto al proprio dolore. Forse è proprio questo
il punto: l’indifferenza verso l'orrore che alcuni innocenti sono costretti ad
affrontare in completa solitudine. La quotidiana lotta alla sopravvivenza per
combattere la quale non possiedono armi. E, alla fine, si ritrovano a non avere
neanche il tempo di fermarsi a riflettere sui danni psicologici che stanno
subendo, danni che li accompagneranno per il resto della vita”.
Il tuo romanzo origina da una vicenda realmente vissuta: quanto
influisce la propria esperienza personale nell’opera di un autore?
“Di tutti i libri che ho scritto, Nero addosso è forse il più intimamente auto biografico. La Lidia
del racconto sono io, non nei passaggi della trama, come sarà facilmente
intuibile per chi avrà voglia di leggerlo. Piuttosto nell’odissea delle
emozioni, nella deriva psicologica ed emotiva che l’esperienza della perdita
comporta per un genitore, per una madre. Nel 2017 anche io ho perso la mia
piccola Sofia, rapita non da un essere umano ma da una malattia atroce. E mi
sono chiesta se, prima o poi, saprò smettere di pensare a lei dopo averle lungamente
promesso di lasciarla andare. La questione non è la nostalgia, piuttosto quel
che resta di noi stessi dopo lo strappo. Quale tipo di vita possa essere
ricostruita, su che basi e prospettive possa poggiare il futuro per chi resta.
E, alla fine, quale ruolo permetteremo di interpretare alle persone che ancora
ci circondano, ai superstiti del quotidiano. A queste domande, che mi
accompagnano da anni con un movimento costante di ritorno, non ho neanche
cercato di dare risposte, perché non ce ne sono. Solo la storia può darne,
scrivendosi da sola e avanzando senza pietà verso il futuro”.
Quale ritieni che sia la forza della scrittura autobiografica e perché
ha tanta fortuna nella narrativa contemporanea?
“Immagino che la sua fortuna dipenda dal fatto che
non si possono descrivere realtà sconosciute con la medesima intensità che
invece appartiene alle cose provate sulla propria pelle. Uno scrittore scrive
sempre. Magari prima immagazzina, elabora, trasforma, ma alla fine deve
scrivere se vuole sopravvivere alle proprie emozioni. Perché le emozioni che
uno scrittore sente sono come amplificate, e possono arrivare a ferire se non
vengono tenute sotto controllo. Gli autori raccolgono suoni della città in cui
camminano, colori e forze della natura, fatti di cronaca e personali, emozioni
violente o passeggere che si inscrivono nel loro cervello e lì rimangono, nel
bene e nel male, a meno che non siano capaci di dargli una forma scritta e
liberarsene. Anche un romanzo fantasy che parla di mondi e dimensioni parallele
alla nostra, alla fine, può essere autobiografico, perché in esso sarà
contenuta la realtà interpretata dal sentire dell'autore, nella forma e nei
modi a lui congeniali”.
Data recensione: 28/11/2022
Autore: Serena Bedini