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“Non è facile coltivare pomodori in Siberia”. Lo è almeno quanto non è facile viverci, ammesso che uno lo abbia voluto.

 “Non è facile coltivare pomodori in Siberia”. Lo è almeno quanto non è facile viverci, ammesso che uno lo abbia voluto. Eppure capita che a volte chi ci finisce, poi decida volontariamente di restarci. Perché si può anche andare o fuggire da una Siberia, ma i legami non possono fuggire con te. È quello che ci racconta Giovanni Morandi nel romanzo “Non è facile coltivare i pomodori in Siberia”, appunto in una saga di famiglia che diventa specchio di un mondo fitto di sentimenti, di intrecci etnici, di divisioni e di ricongiungimenti, in cui ritroviamo tanti aspetti della tragedia che si consuma da mesi in quelle terre. Di nemici fratelli, di patrie prima unite e poi divise, di un mondo a oriente in fondo sempre uguale a se stesso, allora, un secolo o secoli fa, come oggi. Giovanni Morandi, fiorentino, è oggi editorialista del «Quotidiano Nazionale», dopo aver diretto «Il Giorno», «Il Resto del Carlino» e lo stesso «QN». Corrispondente da Mosca negli ultimi anni dell’Urss, ha assistito, unico giornalista straniero, allo storico ammainabandiera avvenuto il 25 dicembre 1991 al Cremlino. Proprio la sua esperienza in Russia è alla base di un romanzo che ha il respiro dell’affresco storico, incentrato sulla storia di tre donne – nonna, madre, figlia – che diventano simbolo di tre diverse generazioni. Ekaterina, originaria di una famiglia aristocratica polacca, sarà deportata in un gulag negli anni della rivoluzione. La figlia Marija, che a quella rivoluzione sarà fedele e diventerà dirigente sovietica, vedrà le proprie speranze tradite con la fine del comunismo. Vera se ne andrà per cercare un futuro in Italia. Tra mille difficoltà, cercherà di lasciare dietro di sé le brutte esperienze. Ma le basterà avvolgersi in una pelle di lupo per tornare nella sua casa ai margini della foresta di betulle, in quella Siberia che per lei sarà sempre “casa”. Un romanzo di scrittura elegante, in cui la fluidità del giornalista è arricchita dalla dolcezza del narratore. Una storia che va un po’ indietro nel tempo, ma in cui ritroviamo il DNA di ciò che vediamo in tv, delle passioni, delle sofferenze, degli odi. Un romanzo che non parla di questa guerra, ma che ci spiega indirettamente attraverso Vera e la saga della sua famiglia, perché lassù si combatte e si muore. Perché c’è sempre una Siberia dietro l’angolo, la deportazione, la sofferenza. La difficoltà di campare la propria vita come di coltivare i pomodori: che sembra impossibile, eppure si può.
Data recensione: 01/07/2022
Testata Giornalistica: Libro Aperto
Autore: Gabriele Canè