Il giorno in cui si dissolse ufficialmente l’Unione Sovietica, il 26 dicembre 1991, trent’anni fa, molti occidentali, tra i quali chi scrive
Il giorno in cui si dissolse ufficialmente l’Unione
Sovietica, il 26 dicembre 1991, trent’anni fa, molti occidentali, tra i quali
chi scrive, furono colti da una sensazione di vuoto, e di spaesamento. Ci
rendevamo conto, istintivamente, della svolta di portata storica che avrebbe
fatalmente rimesso in discussione il corso del secolo giunto quasi al termine,
e forse anche il carattere di quello a venire. Ma c’era qualcosa di più
sottilmente psicologico che alimentava il nostro disagio. Ciò che veniva messo
in discussione infatti era la categoria stessa di «civiltà occidentale»: che
cosa potevano significare ormai quell’aggettivo e quella appartenenza, visto
che sembravano venir meno le altre speculari, in base alle quali si associava
il termine «orientale» al Socialismo realizzato, alla rivoluzione d’Ottobre,
alla Guerra Fredda e all’impero comunista di Mosca? Non a caso François Furet,
uno dei più importanti studiosi del fenomeno, appena quattro anni più tardi
avrebbe avviato la prefazione al suo «Passato di un’illusione» con una
constatazione quasi incredula: «il regime sovietico è uscito di soppiatto dal
teatro della storia, dove era entrato in modo spettacolare». Un’osservazione
seguita più oltre da una specie di necrologio desolato: «Lenin non ha trasmesso
eredità», «la rapida dissoluzione di quell’impero non lascia in piedi
alcunché», «il Comunismo finisce in una specie di nulla». Gli «orientali» che
avevano sperimentato sulla propria pelle il potere bolscevico conoscevano però
una realtà più complessa. L’illusione totalitaria infatti sopravviveva nei
Paesi post sovietici alla sua smentita storica e politica, sebbene ormai
imputridita in un mondo fatto di oligarchi, povertà endemica, corruzione ad
ogni livello, criminalità diffusa (legalizzata dallo Stato socialista, che le
aveva largamente delegato il controllo del suo immenso territorio).
Sopravviveva insomma una mentalità «sovietica» da cui era molto difficile
liberarsi; non si era affatto esaurita in «una specie di nulla», ma rimaneva
abbastanza forte da condizionare le esistenze di milioni di persone anche nei
decenni a seguire.
In un simile contesto di sbandamento ideologico e morale, era difficile per chiunque
riuscire ad aggrapparsi a qualche brandello di passato dal quale ripartire per
costruirsi una nuova identità positiva. Il crollo dei valori poteva essere
riempito soltanto dal consumismo capitalistico, apparentemente a portata di
mano, o al contrario associato a un profondo senso di umiliazione per la
perdita dello status imperiale sovietico. Il che avrebbe spinto molti a reagire
abbracciando ideologie compensatorie: culto della forza personale e militare, idealizzazione
del tempo di Lenin e di Stalin, disprezzo per la presunta decadenza dei costumi
occidentali. Eppure qualcosa avrebbe potuto essere salvato dal disastro e
servire come esempio. Naturalmente c’erano i grandi artisti come Aleksandr Solženicyn,
che avevano denunciato gli orrori avvenuti sotto il peso della «Ruota Rossa». E
poi i dissidenti che avevano resistito senza compromessi anche alle torture,
come Vladimir Bukovskij e Andrej Sacharov. Ma oltre a costoro, erano esistiti i
testimoni solitari e inflessibili di una certa idea di libertà; eroi che
avevano varcato la soglia segnata dall’istinto di conservazione, ed erano
penetrati nello spazio oscuro riservato ai gesti autodistruttivi e alle
pulsioni di morte. Cioè quanti si erano dati fuoco per protesta, pur coscienti
di essere destinati nell’immediato alla censura e all’oblio, e tuttavia spinti
dalla speranza di costituire un esempio per chi fosse venuto dopo di loro.
Data recensione: 01/07/2021
Testata Giornalistica: Storia in Rete
Autore: Dario Fertilio