Oggi si legge con fatica. Quanto al film che ne fu tratto, caramellato e retorico, tutto un «come pioveva» dal primo all’ultimo fotogramma
Zhivago fu a lungo conteso
per pubblicarlo a ogni costo, o per farlo sparire a ogni costo
Oggi si legge con fatica. Quanto al film che ne fu tratto, caramellato e
retorico, tutto un «come pioveva» dal primo all’ultimo fotogramma, era già
imbarazzante allora, nel 1966, quando dappertutto (c’era poco da tapparsi le
orecchie) risuonava il Tema di Lara. Spacciato da Hollywood, dai grandi editori
occidentali e dall’Unione degli scrittori sovietici per l’opera che riscriveva,
sub specie vade retro, la storia
della rivoluzione d’ottobre, Zhivago non
era, al dunque, che una love story ambientata in Urss, sotto una cattiva stella
per gli amanti. Non era la vera Urss, ma un’Urss annacquata, senza «troppo
Stalin», senza «insetti borghesi da schiacciare», scarsi e vaghi accenni allo
sterminio dei kulaki, giusto qualche timido riferimento al Gulag e ai Processi
di Mosca, ma soprattutto i «bianchi» peggio dei «rossi». Belle, anzi
bellissime, le poesie che chiudevano il libro, e che oggi sono pubblicate anche
separate dal testo (Le poesie di Jurij
Živago, Feltrinelli 2018). Ma il romanzo non era all’altezza della fama che
si guadagnò ancor prima d’uscire. Per sapere qualcosa di vero sull’Urss non
restò che attendere l’Ivan Denisovic di Solženicyn.
Zhivago era anche un libro un po’ noioso. Confesso di non averlo mai letto fi
no in fondo, e ci ho provato più volte; neanche il film di David Lean ho visto
fino in fondo, anche se con il film non ho mai fatto un secondo tentativo. Mi
consolo perché non sono il solo. C’è la storia d’Angelo Maria Ripellino che a
Praga, nel 1956, in casa del traduttore clandestino di Zhivago, prende visione
del romanzo, tra i primissimi lettori. Viene fatto accomodare in una stanza –
caffè, sigarette, il dattiloscritto in caratteri cirillici – e comincia a
leggere. Dopo un quarto d’ora Ripellino esce dalla stanza e dice: «E se
andassimo al cinema?».
Harmony sulle violenze bolsceviche che nelle pagine di Zhivago separano Jurij e
Lara, mentre nella realtà seminano tutte le Russie d’orfani e vedove) la love
story di Boris Pasternak, tra i massimi poeti del Novecento, fu tuttavia
qualcosa di più d’un Grande Gatsby malriuscito. Fu anche e anzi soprattutto il
«MacGuffin» d’un mirabolante episodio della guerra fredda. «MacGuffin», termine
coniato da Alfred Hitchcock, sta per oggetto del contendere e per pretesto
narrativo nei thriller e nelle spy stories (il microfilm misterioso, la
valigetta di cui non si conoscerà mai il contenuto, la formula da mandare a
memoria).
Francesco Bigazzi racconta tutta la storia, con vaste e rocambolesche ricadute
geopolitiche e spionistiche, nel suo Il
dottor Zhivago. Il giallo letterario del Novecento. Negli anni scorsi,
sempre da Feltrinelli, sono usciti Živago
nella tempesta e Pasternak e
Ivinskaja, opera entrambi di Paolo Mancosu, due importanti libri
sull’affaire Zhivago, ma più dal lato dell’intrigo letterario che da quello
dell’intrigo in stile Segretissimo. Bigazzi, grande giornalista che da
trent’anni pesca storie memorabili negli archivi segreti moscoviti e nella
stampa russa d’opposizione, racconta invece il lato oscuro dell’affaire, quello
«maschere e pugnali». Sono storie affascinanti, à la Ian Fleming, e proprio per
questo non necessariamente vere: la disinformazia
russa, come i diamanti, è per sempre (a differenza dei giornalisti russi
d’opposizione, che invece non campano mai troppo a lungo).
È un racconto tumultuoso. Nei due anni intercorsi tra il XX Congresso del Pcus
e il boom del Dottor Zhivago (o
Dottor MacGuffin) in edizione Feltrinelli, l’editore che per una serie di
circostanze più o meno fortuite ne detiene i diritti globali, tutti cercano (o
fingono di cercare) il dattiloscritto originale in caratteri cirillici del
romanzo, quello che ha fatto sbadigliare Ripellino a Praga. Chi per pubblicarlo
a ogni costo, chi per farlo sparire a ogni costo, chi per costruirci intorno
un’operazione di propaganda all’epoca senza precedenti. Convinto, da parte sua,
d’aver scritto un’opera immortale, Boris Pasternak vuole naturalmente che tutti
la leggano, e per questo ne fa battere a macchina, carta carbone aiutando, non
si sa quante copie (comunque tante, tantissime, che poi distribuisce in giro a
chi ne fa richiesta, russi che siano, o diavoli stranieri).
Una di queste copie finisce nelle mani di Sergio D’Angelo, ai tempi
corrispondente dell’Unità a Mosca e talent scout per le neonate edizioni
Feltrinelli, alle quali segnala libri da tradurre: per lui e per la Feltrinelli
è il colpo grosso. Pasternak fi rma un contratto e comincia la leggenda.
Tradotta in italiano, la storia strappacore di Jurij e Lara (la-lara-lalà) diventa un best seller;
seguono traduzioni, su licenza Feltrinelli, in tutte le lingue. Ciò genera
storie nella storia: D’Angelo si millanta erede d’una parte dei profitti del
libro (niente da fare, non vedrà un copeco) e la Feltrinelli incassa cifre da
capogiro, mai generate prima o dopo da un qualsiasi romanzo (decine e decine di
milioni di dollari che vengono versati dalla Feltrinelli su un conto svizzero,
dal quale però svaniranno, e senza che Pasternak e i suoi eredi vedano a loro
volta, come D’Angelo, un copeco).
Gb, la leggenda dell’uso improprio di questi fondi, utilizzati secondo alcuni
dal Kgb per finanziare, attraverso Giangiacomo Feltrinelli, che ne fu parte
grassa, il terrorismo europeo, dall’Ira alle Brigate rosse e alla banda
Baader-Meinhof. (Vero o no, è strano che Pasternak pubblichi il suo libro in
Occidente e che in sostanza lo si lasci fare, salvo qualche scontato anatema
del Soviet supremo, nonché di Togliatti e di Rossana Rossanda).
A Langley, Virginia, dove la Cia combatte la sua guerra d’ombre contro il Kgb,
non importa che Zhivago sia il
capolavoro antitotalitario (o il gianduiotto sentimentale) che si dice in giro.
È un’arma antisovietica perfetta e tanto basta. Pasternak, si stabilisce, deve
avere il Nobel, svergognando l’Urss dalla tribuna dell’Accademia svedese. C’è
però un problema: il Nobel per la letteratura può essere assegnato soltanto a
un’opera pubblicata nella sua lingua d’origine e non in traduzione. Urge quindi
una copia del dattiloscritto e un editore anticomunista che lo stampi in
caratteri cirillici. Con l’aiuto dell’Intelligence inglese, Langley dirotta su
Malta, simulando un guasto, l’aereo di linea nella cui stiva, guarda un po’,
c’è una borsa con dentro una copia del dattiloscritto. Fotografato, il libro
viene pubblicato in russo e Pasternak (papabile, come poeta russo, ormai da
anni) vince il Nobel, che dapprima accetta sentendosene onorato, ma che poi
rifiuta su pressione del Soviet supremo (ciò che aumenta le tirature e le royalties svizzere). Imperscrutabile,
dietro le finestre della Lubianka che s’affacciano su Piazza Dzeržinskij, il
KGB progetta intanto le sue indecifrabili operazioni segrete.
Zhivago, per essere pubblicato in
Russia, dovrà aspettare la perestrojka, quando un po’ tutti, passati trent’anni
dall’affaire, lo ricorderanno appena. Non si dimentica, in compenso, il romanzo
per così dire secondo che gli è cresciuto intorno, e che Francesco Bigazzi
racconta nel suo Zhivago, spy story intrigantissima che si legge
d’un fiato. Molto bello, tra parentesi, anche il memoir che chiude il libro, a firma di Valerio Riva, all’epoca
braccio destro di Feltrinelli in casa editrice, poi anticomunista e spirito
orwelliano.
Data recensione: 15/05/2021
Testata Giornalistica: Italia Oggi
Autore: Diego Gabutti