Chi non ricorda il sacrificio di Jan Palach, il martire che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici che nell’agosto del’68 aveva messo fine alla primavera di Praga?
Chi non ricorda il
sacrificio di Jan Palach, il martire che il 16 gennaio 1969 si diede
fuoco in piazza San Venceslao per protestare contro l’invasione dei
carri armati sovietici che nell’agosto del’68 aveva messo fine
alla primavera di Praga? Il suo gesto impressionò talmente i suoi
connazionali che in oltre 600mila presero parte al funerale: una
città “pietrificata” - secondo le parole di Enzo Bettiza –
assistette al corteo che si unì per rendere omaggio al feretro dello
studente, collocato di fianco alla statua di Jan Hus. Nonostante i
tentativi di minimizzazione e insabbiamento da parte del regime
imposto da Mosca dopo la detronizzazione di Dubcek, la fama di Palach
da allora resta immutata: simbolo della resistenza alla dittatura
comunista ed eroe della libertà. Tanto che persino Paolo VI, pur non
potendo «approvare la forma tragica assunta da tale testimonianza»,
nell’Angelus di domenica 26 gennaio riconobbe la necessità di
«custodire il valore che mette al grado supremo il sacrificio di sé
e dell’amore per gli altri». E pregò per «il dramma della
Cecoslovacchia», condividendo «la sofferenza e la speranza di un
popolo menomato nel suo onore e nella sua libertà». E il teologo
Josef Zverina scrisse: «Un suicida in certi casi non scende
all’Inferno e non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si
toglie il suo bene supremo, la vita».
Ma se Palach è
finito giustamente nei libri di storia, non così altri uomini
coraggiosi che scelsero di compiere un atto estremo,
l’autoimmolazione col fuoco, nei Paesi oltre la Cortina di ferro.
Come il polacco Ryszard Siwiec, laureato in filosofia e padre di
cinque figli, il quale l’8 settembre 1968 si fece avvolgere dalle
fiamme nello stadio di Varsavia, mentre era in corso una delle solite
parate comuniste, alla presenza di Gomulka. Identicamente a Palach,
la radicale forma di protesta nasceva dall’aggressione alla
Cecoslovacchia, ma si univa alla richiesta di indipendenza per la
Polonia:«Io muoio per non lasciare morire la libertà» era scritto
in un volantino che lui stesso aveva preparato e che fu ritrovato
nella cartella che portava con sé. Stesso messaggio fu lanciato, il
5 novembre dello stesso anno a Kiev, da Vasyl’ Makuch: «Via i
colonizzatori!», «Viva l’Ucraina libera!», «Giù le mani dalla
Cecoslovacchia!» gridò mentre il suo corpo veniva avvolto dalle
fiamme nel centro della città gremito per le celebrazioni della
liberazione dal nazismo. Lasciò una busta con una lettera rivolta al
segretario del Partito Comunista in cui si denunciava la
russificazione crescente della cultura ucraina, oltre che
l’oppressione di tutta l’Europa dell’Est. Naturalmente, la sua
vicenda fu messa a tacere dalla polizia segreta e, come nel caso di
Siwiec, è riemersa dagli archivi solo dopo la caduta del Muro. Ora
il giornalista Dario Fertilio e la saggista Olena Ponomareva hanno
scritto un volume in cui le loro gesta rivivono: Eroi in fiamme.
Makuch e gli altri che sfidarono l’Urss si intitola il libro
pubblicato da Mauro Pagliai Editore (pagine 264, euro 15,00).
Veniva da Kariv,
villaggio situato a 70 chilometri da Leopoli, il quarantenne Vasyl’
Makuch: da quella Galizia che storicamente era stata centro vitale
dell’impero asburgico e straordinario crocevia di culture. Ha
scritto Joseph Roth: «A Leopoli un tempo si sentiva parlare in
russo, polacco, rumeno, tedesco e yiddish: era come una piccola
filiale del grande mondo». Un mondo che però era stato anche «il
grande campo di battaglia della Grande guerra», che avrebbe visto
accadere non pochi pogrom, compiuti a volte da nazionalisti ucraini
altre volte da quelli polacchi, per subire la tragedia immane dei due
totalitarismi, prima quello comunista, poi dal 1941 quello nazista e
dopo il 1945 ancora quello comunista. Nel suo paesino Makuch era
tornato prima di compiere il suo atto solitario, si era persino
confessato con un sacerdote cattolico e confidato con un suo grande
amico. Ma nessuno dei due l’aveva potuto dissuadere. In compenso,
dopo la morte avvenuta in ospedale alcuni giorni dopo il suo gesto,
la moglie Lidia venne licenziata dalla mensa in cui lavorava come
cuoca: meschina vendetta di un regime che anni prima aveva condannato
Makuch a 10 anni di lavori forzati nelle colonie penali per essersi
arruolato, nel 1946, nelle fila dei combattenti dell’esercito
insurrezionale ucraino. Al funerale, svoltosi il 14 novembre, fu
vietato ogni rito religioso e solo nel 2008, esattamente quarant’anni
dopo, si è potuta celebrare una messa funebre e dargli una sepoltura
cristiana.
Oltre a ricostruire
la vicenda storica della «trinità del martirio» costituita da
Siwiec, Makuch e Palach, il volume dà conto di tante figure simili,
dal diciassettenne di Budapest Sandor Bauer, che si autoimmolò
dinanzi al Museo Nazionale di Budapest quattro giorni dopo Jan Palach, al ventisettenne operaio cecoslovacco Josef Hlavaty, il quale
lo stesso giorno scelse come luogo simbolico la piazza dove era posto
il monumento a Tomas Masaryk, fondatore e primo presidente della
Cecoslovacchia; ancora, il diciannovenne Jan Zajic, che emulò
l’amico palach il 25 febbraio, sempre in piazza San Venceslao, o
l’operaio Evzen Plocek, anche lui cecoslovacco, il quale si diede
fuoco il 4 aprile, Venerdì Santo, nella sua città, Jihlava. E poi
l’ebreo lettone Ilya Aronovic Rips, il 13 aprile a Riga, o lo
studente lituano Romas Kalanta, il 14 maggio a Kaunas. Gesti che
proseguirono negli anni successivi col pastore evangelico tedesco
Oskar Brusewitz, nel 1976 a Zietz in Germania Est, o col tartaro di
Crimea Musa Amut, nel 1978 a Simferopol. Buon ultimo, il pittore
lituano Vytautas Viciulis, addirittura pochi mesi prima del crollo
del muro, il 3 marzo 1989 a Klaipeda.
Tutti protagonisti
solitari e in gran parte dimenticati di quello che i due autori
chiamano l’altro ‘68, quello che ebbe luogo nei paesi comunisti e
che rappresentò non solo una ribellione contro l’ordine costituito
o i valori borghesi della società, come in Occidente, ma una rivolta
in nome dei diritti umani, conculcati in regimi dittatoriali che
avevano fatto della menzogna e del terrore il loro vessillo.
Data recensione: 17/03/2021
Testata Giornalistica: L’Avvenire
Autore: Roberto Righetto