Il romanzo di Giovanni Morandi, Non è facile coltivare pomodori in Siberia, si pone in quel territorio di confine
Il romanzo di Giovanni Morandi, Non è facile coltivare pomodori in Siberia, si pone in quel
territorio di confine tra la fiction e la non fiction, narrando di fatto una vicenda
immaginata, simile tuttavia nella forma e nello stile a un documentario o a un
reportage, poiché probabilmente si nutre di quelle testimonianze raccolte
dall’autore nella sua esperienza di inviato speciale. Peraltro, già
considerando il titolo, si è incerti se assimilarlo all’una o all’altra
tipologia, visto che l’oggettiva complessità di far crescere i pomodori in zone
inadatte per le avverse condizioni climatiche viene contrapposta alla romantica
visione di un personaggio in grado di coltivare con soddisfazione questi
ortaggi, come a voler dimostrare che chi veramente desidera realizzare i propri
progetti di vita può riuscirci solamente grazie alla dedizione e alla tenacia
con cui vi si dedica. Del resto, nel romanzo di Morandi, è proprio il tema della
vita vissuta e combattuta ad emergere in modo preponderante, oscurando a tratti
i dati sociali e politici che hanno determinato la storia delle regioni
sovietiche e variato i destini di milioni di persone, tra cui le tre
protagoniste del libro, Ekaterina, Marija e Vera, rispettivamente madre, figlia
e nipote.
La narrazione ha inizio in Russia, con la conoscenza fortuita di Vera con Andrea
Ambrosoli che si trova a Mosca proprio durante un colpo di stato: le vite di Andrea
e Vera si incrociano e si separano, forse destinate a non incontrarsi mai più. Tuttavia
i numeri di telefono scambiati prima di salutarsi permettono a Vera, una volta
rientrata in Italia, di rintracciare Andrea e di raccontargli la storia della
sua famiglia polacca e nobile. E così, mentre Vera narra del suo viaggio a
Varsavia, realizzato nel tentativo di ritrovare le proprie origini, comincia
anche un altro tipo di percorso, quello del lettore attraverso la storia
intensa di una famiglia, prevalentemente composta solo da donne, visto che gli
uomini hanno sempre un ruolo marginale e di scarso valore. Ancora bambina,
Ekaterina, nonna di Vera, dalla Polonia si trasferisce in Russia nel palazzo
del padre, il conte Aleksandr. La vita dorata che le è riservata in sorte nei
primi anni lascerà ben presto spazio a un’esistenza dura, tragica e di stenti:
rimasta in giovanissima età l’unica superstite della propria famiglia, viene
strappata agli affetti del marito e della figlia e deportata nei campi di concentramento
in Siberia. Sopravvive miracolosamente alla terribile esperienza e comincia una
nuova vita, restando in quella terra fredda e inospitale che tuttavia le appare
ora l’unico luogo possibile in cui vivere: lì si unisce a un nuovo compagno e ha
una figlia, Marija, donna tanto forte quanto affascinante, che si rivelerà il
collante tra due generazioni, quella nobile e decaduta di Ekaterina, quella
coraggiosa e in cerca di affermazione di Vera. È appunto attraverso le parole
di quest’ultima che il lettore apprenderà del compimento del sogno di libertà e
insieme di emancipazione da una condizione economico-sociale non facilmente
accettabile e osserverà l’evolversi delle vicende di tre vite nell’arco di
alcuni decenni, mostrando quanto tempo talora occorra al destino per compiersi
e quanta fatica agli esseri umani per afferrare un brandello di felicità.
Un’altra tematica di non minore importanza è indubbiamente quella legata a un’attitudine
di pensiero e di comportamento tipicamente russa che determina una differenza
sostanziale tra l’effettiva natura delle cose e la forma che assumono agli occhi
delle persone: «La Russia è un grande paese orientale dove il confine tra l’evidente
e l’apparente, tra il vero e il falso è sempre incerto» (p. 15). In questa ambiguità
per l’appunto si dibattono spesso i personaggi del romanzo, vinti in un gioco
di silenzi, di frasi proferite senza convinzione o di mute eppure manifeste espressioni
di sentimenti, grazie alle quali spesso si preferisce avvalersi di ciò che si è
creduto di intendere piuttosto che di ciò che effettivamente è stato pensato.
Nella ritrosia a comprendersi o a farsi comprendere sembra sussistere la
capacità di barcamenarsi in situazioni complesse, rese tali non solo dalle
difficoltà economiche, dalla cultura o dalle tradizioni, ma anche dai ruoli
poco definiti che entrambi i sessi tendono a interpretare. Di fronte infatti a
donne coraggiose, spesso taciturne e profonde, altrove brusche e intense, gli
uomini si mostrano deboli, non all’altezza del confronto, più propensi a
indulgere ai piaceri della carne o dell’alcool, certi che la vita in un modo o
nell’altro saprà salvarli, proprio in quanto appartenenti a un genere che, in
tempi tanto turbolenti come quelli in cui si svolge la narrazione, è
indubbiamente meno facile a soccombere. E Morandi, riferendosi proprio a una di
queste fallimentari figure maschili, osserva amaramente: «Avrebbe voluto essere
un padre migliore quell’uomo, stare di più a casa, rimanere a giocare con la
figlia e invece era sempre fuori, nel letto di qualche donna, davanti a qualche
bottiglia, dominato dalla vita che non sapeva domare» (p. 75).
Lo stile asciutto e lineare con cui Morandi traccia profili e delinea
situazioni è un elemento di ineludibile godibilità in questo romanzo: non
occorre al narratore soffermarsi sui particolari, addentrarsi in descrizioni
accurate, ma gli basta far ricorso alla sua capacità di rendere esplicita una
condizione o far comprendere la tipologia di un rapporto attraverso poche ed
efficaci battute. Ad esempio, nemmeno intere pagine avrebbero potuto descrivere
meglio la situazione del regime sovietico rispetto alle frasi dirette ed esigue
con cui l’autore la tratteggia: «Andava così nella società dei tutti uguali,
perché se eri ben introdotto e avevi gli appoggi giusti potevi essere meno uguale
degli altri e questo faceva la differenza. E meno uguale eri rispetto agli
altri, meglio vivevi. Ad accentuare questo senso di appartenenza alla diversità
contribuirono in Vera i segreti di famiglia di cui venne piano piano a
conoscenza» (p. 78).
Già, i segreti: in effetti, se è vero che questo romanzo tanto agile e diretto,
quanto drammatico e intenso, è imperniato su silenzi, reticenze, segreti, frasi
non dette e sguardi fugaci, è altrettanto innegabile che a modificare
irrimediabilmente il corso degli eventi siano anche decisioni tanto repentine
da lasciar intendere quanto a lungo siano state ponderate, come la scelta di
Vera di partire per Varsavia sulle tracce delle proprie origini o quella di
dare uno strappo a una vita insoddisfacente andando in Italia e affrontando
rischi considerevoli. Del resto occorre osservare che si tratta di un costume
appreso nel tempo e compenetrato nella società: infatti quei silenzi, quei
segreti erano stati necessari a vivere in un’epoca in cui «il regime lodava, anzi
glorificava quei figli che avessero denunciato i genitori se non si fossero dimostrati
fedeli sovietici» (p. 79). Nello stesso senso dissimulare, fingere e non dimostrare
apertamente la propria condizione era ritenuta un’imprescindibile questione di
dignità: «Per una strana contorsione della mente, che tende a nascondersi dietro
le apparenze, quelli che stavano male non mostravano la propria povertà. […] Allo
stesso modo quelli che avevano denaro e cibo godevano della loro abbondanza al
riparo della vista del prossimo verso il quale anzi ostentavano se non fame una
sobria normalità che li metteva al riparo di dover condividere con altri la
loro fortuna. Così la fame diventava occasione per una recita corale della
menzogna, come già era accaduto in altri tempi» (p. 110). Eppure in questa
ordinaria e monotona forma di livellamento sociale e mentale, in questo intento
di assimilazione, spiega Morandi, si annidava non visto e insidioso il
desiderio di differenziarsi, di distinguersi agli occhi degli altri per
diventare credibili a se stessi nel modo meno idoneo e più pericoloso, ma
umanamente comprensibile: l’aspirazione alla superiorità. «Per questa insopprimibile
alchimia il debole veniva sedotto dal forte, l’inferiore dal superiore. In
barba ai filosofi che avevano ipotizzato il contrario» (p. 97).
L’autore dunque imbastisce una commedia umana, nella quale i personaggi si trovano
impaniati senza l’apparente possibilità di ribellarsi, tutti fermamente
convinti di dover aderire a un codice comportamentale non scritto eppure tanto
rigido da non poter essere trasgredito nemmeno nel pensiero. E tuttavia, nel
romanzo di Morandi, la finzione non riguarda l’aspetto sociologico, ma
eventualmente i personaggi che servono al narratore per raccontare le vicende
che hanno permesso la transizione della Russia da terra degli zar a regime
sovietico e successivamente a federazione: è la Storia contemporanea, quella
che abbiamo letto in parte sui libri, sui giornali e che ogni giorno ci viene
trasmessa sui mezzi di comunicazione, ma che in Non è facile coltivare i pomodori in Siberia diventa vita vera.
Data recensione: 01/10/2020
Testata Giornalistica: Nuova Antologia
Autore: Serena Bedini