Nulla sarà come prima. Lo dicono tanti in questi giorni, chi paventandolo, chi invece sperando che dall’emergenza
Libri. Si intitola «L’anno del pipistrello» il
diario della pandemia scritto da Enrico Nistri nei mesi del lockdown, fino al
27 aprile. Riflessioni su notizie, slogan, bollettini. Pubblichiamo un estratto
Nulla sarà come prima. Lo dicono tanti in questi giorni, chi paventandolo, chi
invece sperando che dall’emergenza Covid possano uscire radicali cambiamenti
della nostra società. L’ho scritto anch’io, auspicando che la pandemia mettesse
in crisi il dogma della globalizzazione. Ma sono sempre più convinto di essermi
sbagliato. Nella mia vita ho sentito almeno altre due volte questa espressione,
dinanzi a crisi epocali che incrinavano la nostra fiducia nel futuro.
La prima fu lo choc energetico del 1973, che fece temere a noi occidentali
orgogliosi di aver mandato quattro anni prima un uomo sulla luna di non poter
nemmeno andare in macchina in ufficio. Fu tutta una fioritura di profezie
millenaristiche sul medioevo prossimo venturo e di film apocalittici. Poi
qualcuno si accorse che, come l’età della pietra non era finita per mancanza di
pietre, così l’età del petrolio non sarebbe finita per mancanza di idrocarburi.
Furono scoperti nuovi giacimenti, migliorarono i sistemi di trivellazione, gli
ingegneri inventarono motori che consumano di meno e lampadine a risparmio
energetico. La benzina continuò a costare cara, ma continuammo ad andare in
macchina, anzi in vetture sempre più ingombranti. E se per i giovani l’auto non
è più uno status symbol non è per colpa degli sceicchi, ma è merito dei
cellulari, che consentono di viaggiare ancora più velocemente, restando fermi.
Poi fu la volta dell’11 settembre. Qualcuno — specie negli Stati Uniti, che
avevano bombardato il mondo senza mai essere stati bombardati — lo scambiò per
una pietra miliare nella storia dell’umanità, come l’inizio di uno scontro di
civiltà che avrebbe segnato la nostra vita. Pensatori e romanzieri laici
riscoprirono con rabbia ed orgoglio l’identità europea minacciata dal
fondamentalismo musulmano. La nostra fiducia nel progresso crollò come le
quotazioni delle compagnie aeree. A distanza di qualche lustro ci si accorse
che tutto era tornato come prima. Le radici cristiane dell’Europa rimasero
fuori dalla carta costituzionale europea, l’immigrazione dai paesi islamici
continuò come e più di prima. E come e più di prima, anche se più scomodamente
di prima, facendoci palpeggiare da ruvidi addetti alla sicurezza, abbiamo
ripreso a volare, in seguito alla diffusione dei voli low cost e al rincaro dei
viaggi in treno.
Certo, fin quando non sarà debellato il Coronavirus, la nostra vita cambierà, e
non in meglio. Almeno nel breve periodo ci attendono un mondo più povero e una
vita più agra. Mangiare fuori, prendere il sole sulla spiaggia, stringere
un’amicizia non virtuale, diventerà più problematico. Ristoranti con meno
coperti, stabilimenti con meno ombrelloni, caffè col solo servizio ai tavoli,
costeranno di più proprio mentre il potere d’acquisto sarà calato. Riprenderemo
a viaggiare in auto, almeno finché non ci rassegneremo all’incognita del contagio,
come, prendendo l’aereo dopo l’11 settembre, abbiamo metabolizzato l’incubo di
un attentato. Banche e uffici faranno tesoro dell’esperienza di questi giorni
per ridurre i già ridotti servizi allo sportello e obbligarci sotto le forche
caudine del digitale. Dalla paura di dimenticare la parola d’ordine quando
eravamo di sentinella e poteva arrivare il capitano d’ispezione la mia
generazione passerà all’incubo di scordare le infinite password che Inps,
banche, supermarket ci ingiungono di memorizzare. Ci scopriremo a vivere in un
mondo più scomodo, senza per questo essere più sicuro. E ci adatteremo a
un’esistenza dietro al plexiglas, con la speranza di una fase 3 o 4, se saremo
stati buoni.
Ma i fondamenti della nostra società dubito che cambieranno. La globalizzazione,
causa indiretta del disastro, andrà avanti, anzi paradossalmente conoscerà
un’accelerazione. È probabile che fra due mesi sia più facile a un manager
cinese venire a Roma che a un pensionato italiano prendere il sole sugli
scogli. È più facile che ci facciano indossare le mascherine sino a Natale che
il governo cinese getti la maschera e ci spieghi perché ha impiegato tanto
tempo a informarci di quello che era avvenuto a Wuhan.
Continueremo a delocalizzare le produzioni, a costo di accrescere il numero dei
nostri disoccupati e di trovarci esposti al ricatto della speculazione
internazionale, come ci è successo con le mascherine. I movimenti sovranisti,
che in teoria dovrebbero trarre consensi dalla situazione, rimarranno sulla
difensiva, stretti fra l’accusa, strumentale ma efficace, di sabotare l’operato
del governo e l’imbarazzo per il malfunzionamento della sanità in Lombardia. E
poi le situazioni di emergenza favoriscono sempre, comeè noto, chi detiene il
potere, specie se, come in questo caso, gli permettono di limitare le libertà
costituzionali in maniera sino a qualche mese fa inconcepibile. La
digitalizzazione dell’esistenza, il controllo sugli spostamenti delle persone,
sia pur giustificato con nobili preoccupazioni di contenimento della pandemia,
lasceranno una traccia duratura, anche perché difficilmente, stabilito un
precedente, si torna indietro. L’Unione Europea, sempre meno unita e, vista le
crescenti ondate migratorie, sempre meno europea, confermerà la propria
fragilità, fra un’America sempre meno incline a poggiare sopra le proprie
spalle il fardello dell’Occidente, un’Africa destabilizzata e con i suoi flussi
migratori destabilizzante, e la Russia di Putin, questo ex colonnello del Kgb
che per qualcuno è l’ultimo difensore della civiltà cristiana, per altri un
emulo di Filippo il Macedone, pronto a beneficiare delle discordie fra
italiani, francesi e tedeschi come il padre di Alessandro Magno sfruttò le
divisioni tra ateniesi, spartani e beoti per impadronirsi della Grecia.
E poi c’è la Cina, da cui tutto è partito e cui tutto tornerà. La Cina che ha
già riaperto i mercati di animali vivi, compreso quello di Wuhan, ha ottenuto
che la pandemia fosse chiamata Coronavirus e non influenza cinese; la Cina
convinta di far dimenticare con la «diplomazia delle mascherine» che la via
della seta è stata per ora soprattutto la via del Coronavirus. La Cina che,
forte dei suoi capitali e delle nostre debolezze, potrebbe comprarsi a prezzi
di saldo le nostre aziende e con esse quanto resta della nostra sovranità
nazionale. Però non vorrei essere frainteso da chi mi leggerà. Non è la
crescita della Cina la causa del declino dell’Europa. Piuttosto ne è una
conseguenza. Pechino ha le sue colpe, ma non dimentichiamo quelle di
Washington, di Londra, di Berlino, di Parigi, di Roma. Insomma, di noi. Mi
spiace ammetterlo, ma da almeno mezzo secolo l’Occidente si sta tramontando da
solo.
Data recensione: 05/06/2020
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Enrico Nistri