La differenza radicale di Oriana Fallaci sta tutta lì, nelle righe conclusive dell’intervista con Kate Millett
La differenza radicale di Oriana Fallaci sta tutta lì, nelle
righe conclusive dell’intervista con Kate Millett pubblicata nel febbraio del
1971 (e antologizzata nel volume Se nascerai
donna, Rizzoli). La Millett, femminista ringhiosa delle più intolleranti,
era divenuta una celebrità grazie al saggio La
politica del sesso, in cui massacrava scrittori come David Herbert Lawrence
e Henry Miller accusandoli di essere vessilliferi del patriarcato. Al termine
dello snervante scontro con l’Oriana, l’arcigna Kate si lanciò in una tirata
degna di un’adepta contemporanea delle teorie gender. Spiegò che bisognava «sostituire
quel nucleo sessuale detto famiglia», aggiunse che «per garantire la sopravvivenza
della specie non c’è bisogno della supremazia maschile, del patriarcato, della
famiglia» e terminò con una considerazione antinatalista: «Non v’è un gran
bisogno, oggi, di procreare. Il numero degli abitanti su questo pianeta sta diventando
eccessivo…». La Fallaci si limitò a commentare: «E qui casca l’asino, miss Millett.
Qui non la seguo più. Perché lei sta predicando qualcosa di più catastrofico della
bomba atomica».
Finché si discuteva di patriarcato, di oppressione della donna da parte dei
maschi, Oriana poteva anche essere d’accordo. Ma a una condizione: che non si
smettesse mai di difendere la vita. La vocazione pro life già s’intuiva negli
scritti giornalistici degli anni d’oro (cioè quelli in cui ancora i liberal la
consideravano un’eroina) e andò via via approfondendosi nei libri e negli
editoriali firmati negli ultimi anni di carriera. Oggi possiamo dire che questo
sia il carattere fondamentale del femminismo fallaciano, robusto e deciso,
eppure così diverso da quello che ai giorni nostri va per la maggiore. A
indagarlo ci ha pensato una giovane studiosa, Giorgia Medici, in un saggio intitolato
Raccontare è testimoniare. Oriana Fallaci
e la scrittura del dissenso (Mauro Pagliai editore). Si tratta di un tomo
interessante, perché le posizioni della giornalista toscana sul rapporto tra i
sessi vengono affrontate con piglio accademico, e chissà che ciò non conduca finalmente
a un più complessivo riesame critico dell’intera opera di Oriana, magari libero
dai pregiudizi e dalle polemiche contingenti.
Secondo la Medici, è interessante notare come il femminismo della Fallaci si
distingua soprattutto per il rifiuto della guerra fra maschi e femmine. «Questo
emerge già ne Il sesso inutile»,
spiega. «Sebbene Oriana si mostri desiderosa di scrollarsi di dosso millenari
stereotipi sessisti, ritiene anche che la cieca esaltazione delle prerogative muliebri
debba essere sostituita una più cauta promozione dell’uguaglianza fra individui.
Sa bene che il conflitto, di qualsiasi genere esso sia, conduce inevitabilmente
alla miseria».
Che la prospettiva fosse corretta lo dimostra la terrificante deriva di
movimenti come il Me too, sfociati fin troppo velocemente nel linciaggio e
nella criminalizzazione del «maschio tossico», scaturita per altro da alcuni servizi
giornalistici di Ronan Farrow, che ora persino la stampa progressista osa
criticare, ovviamente a carneficina maschile ormai avvenuta.
Tanto per restare sull’attualità, sarebbe stato interessante ascoltare la voce
di Oriana a proposito di un’altra notizia che ha tenuto banco parecchio: la
conversazione, durante la prigionia, della volontaria italiana Silvia Romano. Come
sappiamo, nel mondo femminista di casa nostra si è consumato uno scontro
piuttosto ruvido: da una parte le «illuminate» che hanno voluto a tutti i costi
sostenere la «libertà» della ragazza di coprirsi il capo e il corpo con una
veste caratteristica dell’islam di marca saudita; dall’altra le (pochissime) militanti
che hanno osato alzare la voce e parlare chiaramente di negazione del corpo
femminile. Scrivendo proprio dell’islam saudita ne Il sesso inutile (1961), la Fallaci dettagliava una situazione che,
allo stato attuale, è sostanzialmente identica: «Lì le donne crepano come cani
rognosi perché non è permesso farle visitare da un dottore. […] Esse sono
creature tanto inutili che, quando nascono, non vengono nemmeno registrate
all’anagrafe ». Chissà che avrebbe detto nel vedere così tante donne pronte a
battere le mani per la «libertà» di una giovane che torna in Italia coperta da un
telone verde…
Non che l’approccio critico della Fallaci si sia limitato al solo mondo
islamico. Tutto era, l’Oriana, tranne che una tradizionalista. Il saggio di Giorgia
Medici fornisce ampia documentazione in questo senso, riprendendo le contestazioni
fallaciane al ruolo dei maschi nella società italiana, e facendo notare quanto
ella si opponesse alla considerazione della donna come mero «oggetto sessuale o
di riproduzione».
In questo senso, dunque, la Fallaci era quasi perfettamente in linea con il
femminismo del suo tempo, anche quello più radicale. Ciò non le ha impedito,
tuttavia, di mantenere sempre una particolare lucidità, soprattutto riguardo
alla difesa della vita. Da un lato, Oriana considerò l’aborto una «questione femminile»,
allineandosi così al pensiero femminista più classico. Dall’altro però, già in Lettera e un bambino mai nato,
rifletteva sull’irripetibilità di ogni vita: «Tutti gli spermii e tutti gli ovuli
della terra uniti in tutte le possibili combinazioni non potrebbero mai creare
di nuovo te, ciò che eri e che avresti potuto essere. Tu non rinascerai mai
più», scriveva rivolta alla persona in grembo.
Col passare degli anni, il suo pensiero si fece più affilato, più determinato.
Sino ad arrivare al famoso articolo Noi
cannibali e i figli di Medea, uscito 15 anni fa quasi esatti (era il 3
giugno del 2005). In quel pezzo, Oriana si scagliava contro «il proposito di
sostituirsi alla Natura, manipolare la Natura, cambiare anzi sfigurare le
radici della Vita, disumanizzarla massacrando le creature più inermi e
indifese. Cioè i nostri figli mai nati, i nostri futuri noi stessi, gli
embrioni umani che dormono nei congelatori delle banche o degli Istituti di
Ricerca». Ne L’Apocalisse, invece, fu
l’utero in affitto a finire nel mirino: «Nel caso di due omosessuali maschi,
con quale diritto la coppia si serve d'un ventre di donna per procurarsi un bambino
e magari comprarselo come si compra un’automobile? Con quale diritto, insomma, ruba
a una donna la pena e il miracolo della maternità?», scriveva Oriana. «Io
quando parlano di adozione-gay mi sento derubata nel mio ventre di donna. Anche
se non ho bambini mi sento usata, sfruttata, come una mucca che partorisce
vitelli destinati al mattatoio. […] Qualcosa che mi offende anzi mi umilia come
donna, come mamma mancata, mamma sfortunata. E come cittadina».
Questo era il femminismo della Fallaci , la scrittrice che si definiva
Scrittore e che oggi le femministe sarebbero probabilmente le prime a contestare.
Magari accusandola di omofobia.
Riccardo Torrescura
Data recensione: 04/06/2020
Testata Giornalistica: La Verità
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