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Ho conosciuto Pietro Grossi nel 2000, in una breve conversazione davanti alla libreria Edison di piazza Repubblica. Oggi famosissimo scrittore grazie alla raccolta di

Pietro Grossi, talento letterario sulla scena nazionale con “Pugni” è andato vicino a vincere il premio “Strega”

Ho conosciuto Pietro Grossi nel 2000, in una breve conversazione davanti alla libreria Edison di piazza Repubblica. Oggi famosissimo scrittore grazie alla raccolta di racconti Pugni (Sellerio, 2006), l’allora poco più che ventenne Grossi aveva da poco pubblicato con Polistampa il romanzo Touché, che in pochissimi conoscono. Mi colpì soprattutto il suo look elegante e serioso, l’opposto di ciò che mi aspettavo dall’autore di una storia i cui giovani protagonisti erano quattro eroi dediti all’arte e agli eccessi.
Oggi, dopo il tripudio della critica - il libro è stato finalista del prestigioso premio Strega - e un enorme successo di pubblico, conversare con Pietro Grossi è conversare con un ragazzo educato e alla mano più che mai.
Pietro Grossi, tu sei nato nel ’78: cosa hai fatto in questi 28 anni?
«Sono stato a Firenze fino a 19-20 anni, cioè fino alla fine del liceo classico, presso i Padri Scolopi: un’esperienza terribile. Vivevo con la mia famiglia: babbo, mamma e due sorelle più grandi, ma dopo ho passato un anno un po’ in giro, soprattutto ai Caraibi: sono sempre andato in barca ed all’epoca ero skipper su una grossa imbarcazione. Ho passato un mezzo inverno – ne ho ancora un ricordo spiacevole – a Firenze, quindi sono andato a Torino, dove ho frequentato la famigerata scuola di tecniche della narrazione Holden. Poi New York per un anno, a studiare e lavorare: ho studiato cinema e lavorato in una casa di produzione fondata da quelle giovani ragazze che avevano già prodotto Boys don’t cry. Era l’annus horribilis delle Torri Gemelle che, fino a una certa mattina, si ergevano proprio in fondo alla strada dove abitavo, a meno di un chilometro da casa: quella mattina stavo scrivendo ed ero insolitamente sveglio alle 8 e 30. Le ho viste crollare, ho visto e ricordo molto bene quei “puntini neri” che volavano giù dagli ennesimi piani».
Che opinione hai della reazione degli americani?
«Quell’evento è stato indubbiamente uno scossone, anche positivo, nella misura in cui può esserlo una grossa catastrofe. Ha saputo riscaldare la città e il Paese, che ho visto diventare come una grande famiglia: una straordinaria reazione. Tra l’altro io sono mezzo americano, entrambe le mie nonne lo sono, e conoscendo la cultura degli USA sono anche sempre stato molto critico per tanti motivi che penso sia inutile elencare. Ecco, dopo quell’esperienza vissuta a New York mi sono ammorbidito su alcuni di quegli aspetti che criticavo e non è stato per il vedere l’America vittima fragile come non mai ma proprio per avere assistito a quella reazione sociale, straordinariamente civile.
A giugno 2002 sono tornato in Italia e, dopo una breve parentesi a Firenze, sono andato a Roma, dove ho vissuto per due anni, sbarcando il lunario in mille modi, nel tentativo di lavorare nel cinema: un obiettivo fisso e primario».
E la letteratura, la scrittura, quando sono diventate il tuo obiettivo primario?
«Quelle lo sono state sempre, dall’età di 8 anni, quando scrissi il mio primo romanzo. E non ho mai smesso. Quando ero a Roma non avevo intenzione di pubblicare niente, anche se ogni giorno della vita e soprattutto allora ho annerito diverse pagine di quaderno: racconti, romanzi e ogni altro tipo di prosa. Molte, molte pagine al giorno, anche quando non avevo alcun argomento che mi premeva. In quel biennio romano ho tentato la carriera nel cinema, come sceneggiatore o comunque sul set, ma intanto per guadagnare ho fatto il barman, ho corretto bozze e tradotto per Mondatori. Ho ottenuto in realtà soltanto rari e piccoli lavori nel cinema, come revisore di sceneggiature: il fatto è che il cinema italiano proprio in quel momento ha avuto un tracollo: quando un paese importante come dovrebbe essere il nostro da 80-90 film all’anno (2003) arriva a realizzarne una venticinquina (come ho visto nel 2004 a Roma) si assiste alla morte del cinema o quantomeno delle speranze di un giovane che non si sia già fatto un nome da sceneggiatore.
Poi, dopo mesi di depressione lavorativa, un giorno alzo il telefono, esausto, e come risucchiato da un vortice mi ritrovo improvvisamente a Milano, dove lavorerò in pubblicità come copyrighter in Publicis, ma solo fino a maggio di quest’anno. Quando è uscito Pugni ed ha iniziato ad andar bene, ho capito che la pubblicità non mi piaceva poi tanto e prendeva più di quanto mi dava. Il successo del mio libro e conseguentemente la possibilità di soddisfazione economica hanno fatto il resto».
Come ci vivi a Milano e come hai vissuto a Firenze e a Roma?
«Non so quanto resterò qui ancora: Milano, nel momento in cui non ci lavori più, perde un po’ di significato. Roma è sicuramente avvenente e tutte e tre, ognuna a suo modo, sono ottime città. Roma e Firenze assomigliano per me a un muro molto bello, imbottito e vellutato come una poltrona, mentre Milano, nel bene e nel male, è un muro di cemento. Se lanci una palla contro il muro a Milano, torna indietro con traiettoria prevedibile e con la stessa forza, a Roma o a Firenze torna smorzata e non sempre verso te. Firenze e Roma sono città sorde e un po’ stanche, vittime della loro stessa comodità, bellezza, storia, architettura… Milano invece è viva, si muove, ti rende in modo esatto quel che ci metti. In questo senso definisco Milano “reattiva” e la considero, paradossalmente, molto più accogliente».
Le lettrici saranno anche curiose di sapere se sei fidanzato.
«In questo momento sono assolutamente e felicemente fidanzato. Il mio rapporto con l’altro sesso è sempre stato abbastanza particolare: un profondissimo amore-odio. Credo di non essere mai stato piantato da una donna ma non ho neanche mai avuto grandissima fortuna, visto che non riuscivo a conquistare quelle cui più anelavo. Una vita sentimentale, comunque, molto movimentata la mia e punteggiata da insofferenze e insoddisfazioni. Ma anche per colpa mia, lo riconosco.
Anche il mio sentimento per Firenze, si è già capito, è così: voglio un bene dell’anima alla mia città, dove probabilmente passerò tutta la vita, ma è una città che non ti dà niente, che deve uscire dalla convinzione di vivere ancora nel Quattrocento, che annega nella propria presunzione (facendo sempre le dovute eccezioni)… come anche Roma, del resto. I fiorentini mandano a spasso per il mondo i più grandi talenti, vogliono trasformare la loro città, uno dei teatri più belli del mondo, solo in un museo dove non succede niente. Io sono invece uno che vuole vedere accadere le cose, nel bene o anche nel male. Firenze è fissa e, non so perché, si basta così com’è. E per questa constatazione, quando mi capita di trascorrerci pochi giorni, dopo il terzo già mi viene l’ansia».
Quali progetti hai per il futuro?
«Per ora continuo a vivere, diciamo, alle spalle del libro e, dato che in genere penso abbastanza poco al futuro, non voglio far progetti in questo momento. Di certo vorrei continuare a scrivere qualcosa di “decente” ma per farlo, l’ho imparato con Pugni, devo non pensare o almeno pensare il meno possibile. Io scrivo sempre a mano, con una Bic su un quaderno bianco, e ormai ho trovato un metodo, per così dire: quando scrivo la prima parola della pagina non penso assolutamente a niente di quello che seguirà».
Data recensione: 15/09/2006
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Antonio Pagliai