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Ricorre in questi giorni il 50° anniversario della guerra dei sei giorni. Un anniversario punteggiato di attentati terroristici in Europa. È, appunto, nel 1967 che nasce il protagonista

“Israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi: hanno bisogno di abbattere il muro che li divide”: il libro “La lunga tregua” di Lia Viola Catalano (Mauro Pagliai Editore) si apre con questo pensiero di David Grossman. Ma è realistico pensare che gli israeliani abbattano il muro che li ha messi al riparo dagli attentati terroristici?

Ricorre in questi giorni il 50° anniversario della guerra dei sei giorni. Un anniversario punteggiato di attentati terroristici in Europa. È, appunto, nel 1967 che nasce il protagonista di questo libro di Lia Viola Catalano (La lunga tregua, Mauro Pagliai Editore), Habibi, cui la nonna – dotata di spirito profetico in sogno – attribuì l’appellativo di Fa’ez, il vincitore. Ma gli antefatti della sua storia personale, della storia del libro, della storia stessa d’Israele risalgono più indietro: ed è la storia di un’ibridazione non riuscita. Il principale antefatto della storia recente d’Israele – e di questo libro – è stato infatti posto dalla risoluzione dell’ONU n. 181 del 1947 che divise il Mandato britannico sulla Palestina in due embrioni di entità statali, uno ebraico e l’altro arabo. Ma l’ibridazione non venne con questo superata, poiché le rispettive popolazioni erano intrecciate, non erano ripartite secondo le linee tracciate sulla cartina geografica da chi della storia dei due popoli se ne fregava. Quella ripartizione non andò bene a nessuna delle due Parti. Alla fine del loro mandato gli inglesi gettarono la spugna, lasciando campo libero alle forze ebraiche e palestinesi. Alla immediata proclamazione dello Stato d’Israele, che ne seguì, la Lega Araba reagì attaccando il neonato Stato con un proclama che avremmo sentito ripetersi innumerevoli volte da allora in poi: “Sarà una guerra di sterminio e di massacro della quale si parlerà come dei massacri dei Mongoli e delle Crociate”. Ma, sbalordendo il mondo, gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq vennero sconfitti dal piccolo esercito d’Israele, per cui quella guerra, definita da Israele d’indipendenza e dagli Arabi “la catastrofe”, generò per questi un’umiliazione cocente da riscattare. Ma non andò meglio nel ’67 e nel ’73; anzi per gli Arabi andò di male in peggio. In conseguenza lo Stato d’Israele si espanse notevolmente, inglobando Gerusalemme. Sul piano della convivenza civile una delle peggiori conseguenze fu l’espropriazione di molte case dei palestinesi: gli si disse che sarebbero ritornati presto; stanno ancora aspettando, mentre gli insediamenti israeliani continuano. Ho fatto questa premessa per spiegare perché il libro di Lia s’intitola “La lunga tregua” e non “La pace”. La pace è impossibile quando entrambe le Parti si richiamano al mito, trasfuso in indeclinabile precetto religioso. “Un territorio che una volta è stato islamico, secondo la dottrina islamica, non potrà mai più essere de-islamizzato, gli eserciti di Allah sono obbligati a riconquistare il territorio islamico che è andato perduto. Anche la Spagna e i Balcani. Figuriamoci Israele e Gerusalemme!”. E come può Israele rinunciare alla sua sovranità quando questa rinuncia – secondo i proclami dell’altra Parte – sarebbe il preludio all’annientamento del suo popolo (che ora ammonta a oltre 8 milioni)? È evidente che, messa così la cosa, non c’è via d’uscita. Anche la famiglia del protagonista del romanzo, Habibi, venne espropriata della sua casa. Una bellissima casa, dove la nonna, istruita dal padre, mostrava col telescopio le stelle nel cielo. Habibi nacque durante la fuga dei suoi dal campo di Tiberiade verso quello di Hasbaya, nel 1967, mentre era in atto la guerra tra il Mondo arabo e Israele. Venne estratto dal ventre della madre, uccisa da un proiettile. Indimenticabile la scena della famiglia che arriva al campo a bordo della vecchia automobile del nonno, trainata da un cavallo perché non avevano benzina… Nel campo, Habibi cresce, va a scuola, ma soprattutto viene addestrato severamente alla guerra: è quella la missione cui dovrà assolvere appena adolescente, per risolvere il problema palestinese secondo il sogno profetico della nonna. Nel campo Habibi frequenta una ragazzina, Nabila, che rivede fugacemente a un matrimonio, dopo una separazione di anni e quando ormai lei è stata promessa a un ricco mercante. Da quel fugace incontro nasce un figlio: orrore! Nabila viene espulsa dalla casa del padre. La trama del romanzo si svolge in filigrana sulla situazione della Palestina dal ’67 in poi, seguendo il fil rouge dell’amore di Habibi per Nabila. La quale, benché docente universitaria, è diventata intanto istruttrice di terroristi e aspirante terrorista lei stessa. Riscatterà così il disonore in cui è incorsa e la sua famiglia sarà orgogliosa di lei. Perché i palestinesi, i musulmani, i foreign fighters diventano Kamikaze? Certo c’è la promessa coranica per i martiri di andare direttamente in paradiso. Ma ancor di più contribuisce la ricerca esaltante dell’autostima. I martiri sono gli idoli dei musulmani; i bambini si scambiano le loro figurine come fanno i nostri bambini per le figurine dei calciatori. E a sospingerli è questa incoercibile volontà di rivalsa contro un popolo che li ha schiacciati, che li fa sentire inferiori. “Israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi: hanno bisogno di abbattere il muro che li divide”: il libro di Lia Viola Catalano si apre con questo pensiero di David Grossman. Ma è realistico pensare che gli israeliani abbattano il muro che li ha messi al riparo dagli attentati terroristici? A cosa appellarsi allora? L’autrice si appella alla cultura. Ma alcuni degli attentatori dei nostri giorni sono istruiti. E, anche nel romanzo, Habibi e ancor più Nabila, sono forniti di istruzione. In cosa allora sperare? Si potrebbe sperare nel cambio generazionale. Ma perché le future generazioni palestinesi la pensino diversamente dovrebbe cambiare la situazione in Israele. Lì i palestinesi rimasti sul territorio israeliano sono discriminati, compressi in tutti i modi. Non hanno accesso alle autostrade, riservate agli israeliani, fanno file lunghissime ai posti di blocco per andare a lavorare, per andare all’Università. Anche le autoambulanze devono fare la fila, da quando un’autoambulanza imbottita di esplosivo è esplosa a un posto di blocco. Nel romanzo Nabila viene salvata dall’amore di Habibi e del figlio Amir. Nella realtà possiamo solo auspicare la fine di questa guerra occulta e degenerata. Ma già Platone avvertiva: “Solo i morti hanno visto la fine della guerra”. Mi piace tuttavia ricordare che i negri iniziarono la loro ascesa sociopolitica in America quando, con Martin Luter King, rifiutarono la violenza. Come ha scritto il poeta persiano Sa’ dī Shiraz, catturato e reso schiavo dai crociati ad Acri: “Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, // sono della stessa essenza.// Quando il tempo affligge con il dolore // una parte del corpo // le altre parti soffrono. // Se tu non senti la pena degli altri // non meriti di essere chiamato uomo”.
Data recensione: 01/09/2017
Testata Giornalistica: Leggere:tutti
Autore: Corrado Calabrò