chiudi

Si ritrovano sulla panchina di piazza del Mercato. Pochi spiccioli in tasca, la voglia di spaccare il mondo, la musica degli Area e delle Orme come colonna sonora della giornata.

Si ritrovano sulla panchina di piazza del Mercato. Pochi spiccioli in tasca, la voglia di spaccare il mondo, la musica degli Area e delle Orme come colonna sonora della giornata. Non studiavano, quando trovavano un lavoro i primi tempi si tuffavano tra officine e navi, pneumatici e fabbriche, ma poi lo buttavano via, il lavoro, sbuffavano agli ordini, ghignavano al mondo. Cosa volevano dalla vita non lo sapevano nemmeno loro. Erano violenti, bestemmiavano, bevevano vinaccio da mureri, talvolta rubavano, ma erano capaci di generosità, di lealtà. Qualcuno era orgoglioso di dirsi comunista, altro scoprivano che anarchico è meglio. Sullo sfondo le fabbriche, il fumo nero, le sirene; sotto gli occhi l’asfalto ruvido e sporco, famiglie sfasciate e senza soldi. Il sesso consumato sotto un cavalcavia. Erano i giovani di Marghera. Era una gioventù ricca di sogni tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento quella che racconta Fabio Amadi nel suo nuovo romanzo, Gli dei se ne vanno (da una canzone degli Area, 1978, “Gli dei se ne vanno e gli arrabbiati restano”) C’è anche una “colonna sonora” nel libro, bisogna ricordarli quei riff di chitarre distorte, quelle voci roche di rabbia e amore, i mangianastri ad attorcigliare Gianfranco Manfredi o Pierangelo Bertoli, il nostro Gualtiero Berteli, e i vinile dei Led Zeppelin o dei Pink Floyd. Magari ascoltati all’alba su una spiaggia piena di rifiuti dopo una notte ubriaca. Ma su tutti gli Area di Demetrio Stratos. Gli dei se ne vanno è un libro bellissimo, popolato da un’umanità stracciata, stanca, consumata, a volte bruciata dal lavoro o dall’alcol o da tutti e due; il meccanico, il padrone del laboratorio, i colleghi più o meno cattivi, qualche ragazza. È un libro bellissimo nel raccontare una gioventù sgangherata di sogni e ideali, un mix tra Marx, il Pci e Avanguardia Operaia, la Cgil e Bakunin, i figli dei fiori e la droga. È la droga la vera protagonista di questo libro. La prima volta è uno spinello raccontato da Bolla, uno dei protagonisti, sotto naja; ma c’è già un’aria sinistra, come l’ombra delle ali di uno spettro. Poi arrivano l’LSD, il Valium, Roipnol. Poi l’acido. Poi l’eroina. La droga pesante no, dice Davide, il protagonista. È la droga a trasformare la piazza di Marghera «da “laboratorio alternativo” a mercato dello spaccio, ed io la sentivo sempre meno mia». Il romanzo narra la luce nera di questo passaggio, la giovinezza stuprata dalla droga, i ragazzi trasformati in zombie e ladri, mutazione genetica verso l’orrendo mercato della morte che domina ancora oggi le vite di tanti ragazzi. Nella prefazione Gianfranco Bettin sottolinea una pagina stupenda del libro: Davide è tentato dall’eroina, la tiene in camera, tra le pagine di un libro. Sta per cedere quando la sua mente vede «le immagini delle braccia bucate e piene di ematomi viola dei miei amici, le bocche impastate, i furti, gli scippi, lo spaccio, le botte, il carcere e lo sbattersi quotidiano tra il fango e le miserie umane... E poi ancora le loro facce trasformate in ciniche ed egoistiche maschere, interessate solo all’uso e al consumo dell’eroina». Oggi c’è solo questa strega bianca, non ci sono più i sogni.
Data recensione: 06/06/2013
Testata Giornalistica: La Nuova Venezia
Autore: Roberto Lamantea