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Il Mondiale di ciclismo domenica torna da dove era partito quasi centocinquanta anni fa, a Firenze. L’ultimo grande evento, della città del Giglio allora capitale “provvisoria” d’Italia

Il Mondiale di ciclismo domenica torna da dove era partito quasi centocinquanta anni fa, a Firenze. L’ultimo grande evento, della città del Giglio allora capitale “provvisoria” d’Italia, fu quello che Paolo Ciampi narra nel suo gustoso e avvincente La prima corsa del mondo. Campioni e velocipedi nella Firenze Capitale (Mauro Pagliai Editore). Quella fu di sicuro una delle prime imprese eroiche dei pionieri della bicicletta, al tempo gli ignoti «velocipedisti cosmopoliti». Nove anni dopo l’Unità d’Italia, in quel 2 febbraio 1870, gli inediti e malvisti cavalieri in sella al «cavallo di ferro» si diedero battaglia pedalando su parte del tracciato iridato del 2013: la Firenze-Pistoia. «Trentatrè chilometri, né più, né meno», da coprire con delle due ruote scomode e pesanti, lontanissime parenti delle ultraleggere dell’artigianato ciclistico odierno. Chiamati alla prova erano quei baldi che a Firenze prima della giornata storica del 2 febbraio erano stati visti passare «velocissimi» nel parco delle Cascine. «Trenta pazzi che sfrecciarono e sciamarono nell’ombra», annotava incuriosito Carlo Pancrazi della "Gazzetta d’Italia". Erano i nuovi paladini della ginnastica viaggiante (anche il Touring Club è nato per iniziativa di 57 velocipedisti), gli «sportmen» fiorentini che dal 1869, «tra una pedalata e l’altra», si erano uniti sotto l’egida del Veloce Club, la prima società ciclistica italiana con regolare statuto fondata dall’avvocato Giovanni Fazzini. Attorno a sé Fazzini aveva attirato la ricca borghesia, la classe dirigente e la nobiltà cittadina, incarnata dall’ex ministro delle Finanze Pietro Bastogi e dal principe Tommaso Corsini. Primo presidente del Veloce Club fu eletto l’altrettanto nobile belga, Gustavo Langlade. E belga era anche l’uomo da battere per i velocipedisti delle cascine, l’animatore «senza il quale non si muoveva foglia a Firenze», ovvero il barone Alessandro De Sariette. È da questo signore dall’inconfondibile baffo a manubrio e dal suo cenacolo elitario, fiammingo-fiorentino, che si dava appuntamento allo chalet appena fuori la Barriera degli Zuavi, che nacque l’idea della Firenze-Pistoia. Orgoglio popolare, spinto dall’ardore di quei padri del ciclismo moderno, per decenni hanno tramandato la sensazionale novità spacciandola con convinzione come la «Prima corsa del mondo». La storia li sbugiarderebbe con un’altra data, comunque ravvicinata: il 31 maggio 1868, giorno in cui a Parigi al parco Saint Cloud il veterinario inglese James Moore, «in quattro minuti e con quattro metri di vantaggio», tagliò per primo il traguardo di quella che agli annali è passata come la «prima corsa del mondo su pista».
Nel luglio del 1869, la prima gara ciclistica su pista corsa su suolo italiano si svolse a Padova, al Prato della Valle, dove dal 1766 si sfidavano con le padovanelle, le progenitrici del sulky per la corsa al trotto. La Firenze-Pistoia non era neppure la prima gara in linea, perché anticipatori, anche se di poco, erano stati i francesi del Vélo Club Parisien (prima società ciclistica del mondo) che il 7 novembre del 1869 tennero a battesimo l’eroica «tappa» da Parigi a Rouen «città natale di Flaubert e dove venne arsa al rogo Giovanna d’Arco», ricorda puntuale Paolo Ciampi. E prima della Firenze-Pistoia, si era corso anche la Tolosa-Caraman e la Londra-Brighton. Quindi quella con partenza dal capoluogo toscano, per ambire al primato mondiale delle corse dei velocipedi doveva riqualificarsi come la «prima gara in linea internazionale». Firenze fin dal tempo del Granduca era strapopolata da stranieri e in particolar modo da inglesi, al punto che il ministro a corte, Horace Mann, si lamentava «dell’eccessiva presenza di connazionali». Al via, suonato dal trombettiere Salvini, molti erano gli stranieri anche tra i 19 che in sella a quei pesanti veicoli «troppo alti per toccar terra col piede» si erano iscritti alla mitica corsa. E straniero fu anche il vincitore. Primo al traguardo di Pistoia, giunse un giovinetto americano di non più di 15-16 anni, il “signor” Rynner Van Heste che staccò tutti gli avversari e in 2 ore e 12 minuti, tra lo stupore del pubblico e dei delegati della corsa, coprì i trentatrè chilometri. Anche il podio fu interamente “estero”: secondo con tre minuti di ritardo da Van Heste si piazzò il francese Charels e terzo il favoritissimo De Sariette che mandò su tutte le furie i tanti tifosi che avevano scommesso cifre importanti sulla sua vittoria. Il pisano Edoardo Ancilotti, fu il primo dei velocipedisti italiani, ma non pago presentò reclamo alla giuria (partito in quarta fila era arrivato con lo stesso distacco dal De Sariette). Ricorso accolto e quindi per Ancilotti fu terzo posto, ma a pari merito con il belga, si capisce. Medaglia d’oro al collo e un revolver da tenere in tasca, il premio dato al vincitore e per festeggiare grande abbuffata offerta ai tavoli della trattoria del Globo, con le specialità della cucina pistoiese. Si chiudeva così una gara che comunque la si voglia inquadrare rimane epica, e il cui scopo divulgativo venne sintetizzato dal quotidiano “La Nazione” che alla vigilia aveva titolato in prima pagina: «Tutto è progresso a questo mondo!».
Lo scetticismo e quasi il timore ancestrale che prima della Firenze-Pistoia aleggiava cupo all’inseguimento del futuristico «cavallo di ferro», era stato vinto allo sprint da tutti coloro che per dirla con il Langlade erano «pratici del nuovo e tanto combattuto veicolo». La bicicletta, che come sosteneva Gianni Brera «era nata come anticavallo», da quel momento cominciò la sua inarrestabile ascesa popolare. Firenze l’anno seguente non riuscì più ad organizzare una corsa in linea internazionale come quella che ai posteri era stata spacciata come la prima del mondo, ma nel 1873 (il 4 maggio), esattamente 140 anni prima di questa sfida Mondiale di domenica, si corse la Firenze-Prato-Firenze e quella volta il barone De Sariette si prese la rivincita vincendola. Ancora la vittoria di uno straniero, come straniera è stata l’emancipazione della bicicletta nel Belpaese. Ma come ammoniva Curzio Malaparte: «In Italia, se per caso dite che la bicicletta non è stata inventata da un italiano, intorno a voi gli sguardi si faranno cupi e sui volti calerà una maschera di tristezza».
Data recensione: 27/09/2013
Testata Giornalistica: L’Avvenire
Autore: Massimiliano Castellani