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Ogni abitazione è un focolare domestico, con i suoi lari e il nume tutelare. Ma i luoghi dove sono vissuti e hanno scritto i poeti sono le case dell’anima

Ogni abitazione è un focolare domestico, con i suoi lari e il nume tutelare. Ma i luoghi dove sono vissuti e hanno scritto i poeti sono le case dell’anima, e le loro stanze con gli anni diventano i luoghi della memoria di un Paese. Perciò come non essere d’accordo con Eraldo Affinati quando in prefazione al libro Le case dei poeti (Mauro Pagliai Editore; verrà presentato a Milano alla Casa del Manzoni, martedì 19 marzo alle ore 18) di Anna De Simone, si chiede: «Perché vorremmo scongiurare con tutte le nostre forze, il pericolo che la stanzetta di Villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio al cui tavolino Giacomo Leopardi compose i supremi versi della ‘Ginestra’, sia definitivamente smantellata dall’incuria e dall’indifferenza collettive?». Ed è da Leopardi e dal nobiliare palazzo di famiglia, a Recanati, che è iniziato questo originalissimo viaggio sentimentale di Anna De Simone - saggista e critica letteraria - nelle 63 dimore («Alcune le ho visitate fisicamente, altre solo col desiderio»), i rifugi creativi ed esistenziali dei suoi amati poeti. «Palazzo Leopardi e le ‘Vaghe stelle dell’Orsa sul paterno giardino scintillanti’, saranno per sempre la mia bussola ideale», dice la De Simone che dalle colline verdeggianti che guardano al Monte Tabor ha attraversato l’Appennino tosco-emiliano fino a Castelvecchio di Barga, per «rivedere» la casa di Giovanni Pascoli. È entrata in quel giardino dove si aggira il fantasma del cane Gulì, e da lì ha varcato la soglia dello studio, rapita dall’ordine monastico delle tre scrivanie del poeta che cantò il ‘Fanciullino’. «Quello, il fanciullino, l’ho ritrovato nella casa dell’infanzia di Pascoli, a San Mauro, dove ho riascoltato quei versi struggenti e materni: «Mia madre era al cancello./ Che pianto fu! Quante ore! […] M’era la casa avanti,/ tacita al vespro puro,/ tutta fiorita al muro/ di rose rampicanti».
La casa del cuore di Cesare Pavese fu sempre quella nelle Langhe, a Santo Stefano Belbo, ma quando morì la madre andò a vivere in via Lamarmora a Torino. È lì che scrisse anche la poesia: «Una voce di donna che suona segreta sulla soglia di casa, al cadere del buio» (‘La casa’, da Attorno a lavorare stanca). Sono le ombre delle sere in cui a Milano vagava nell’oscurità di via Stilicone .
Giovanni Giudici. Le notti che Vittorio Sereni vedeva riflessa la luna nello specchio del Naviglio sotto casa, magari incrociando la lucida e luminosa follia di Alda Merini, la cui casa, ‘espiantata’, è diventata un museo in via Magolfa. A Milano Eugenio Montale scriveva versi ed elzeviri, per il “Corriere”, nella sua elegante dimora di via Bigli, mentre Giovanni Raboni da via San Gregorio si affacciava per «guardare/ da tutte le finestre delle strade per cui passo». Ma la casa «più familiare», per chi ha compiuto questo viaggio è quella di Lalla Romano, in via Brera al 17, proprio di fronte alla Pinacoteca. «Tra i suoi libri, i suoi quadri, le sue carte, i suoi cappelli, tutti disposti in bell’ordine su un cassettone della camera da letto, mi sento come a casa mia», dice la De Simone. E l’altra casa milanese di cui subisce il fascino discreto è quella di Franco Loi, il poeta che più e meglio di tutti ha raccontato una certa Milano, con la sua scighera (la nebbia) i suoi angoli, le periferie. Lambrate com’era, il Casoretto, i Navigli, la Darsena, il ricordo milanese di Elio Vittorini. E all’Aquabella « i tram che vègnen surd in scoss al vent,/ i vûs ch’j slisa dré quj strâd de palta,/ quèl curr de pressia, curr sensa savè » («I tram che arrivano sordi nel mezzo del vento, le voci che scivolano dietro quelle strade di fango, quel correre di fretta, correre senza sapere»). Sandro Penna , bastonato e irriso dalle squadracce fasciste, traslocò da Perugia a Roma, nella casa di via della Mole de’ Fiorentini.
L’appartamento disordinato, labirinto di oggetti ammassati alla rinfusa (come casa Merini con l’elenco telefonico trascritto alle pareti) la cui vista al poeta Elio Pecora fece dire: «Mi colmò prima di orrore, poi di ammirazione... E vidi Penna, pari a un re, né ho conosciuto altri degni di tanto».
Anche le più umili, sono case regali quelle in cui hanno alloggiato il pensiero e la cultura autentica del secolo scorso.
Ed era una Roma meno sciatta e cialtrona, ma anzi sobria, borghese, nell’interno di famiglia di Attilio Bertolucci, approdato da Parma in quella casa di Monteverde dove visse per 43 anni: «Gli anni sono passati, sull’intonaco/ inverdito di muffa luce e ombra/ si baciano a quest’ora che volge/ con tale disperata tenerezza /il tempo prolungando dell’addio» (da ‘E viene un tempo’). A quella porta di casa Bertolucci un giorno bussò un giovane poeta arrivato da Casarsa che si era trasferito a Roma con la madre, era Pier Paolo Pasolini. L’ultimo poeta pasoliniano, Pierluigi Cappello, dopo l’ultimo sisma che colpì il Friuli (1976) vive in una casa di legno, a Tricesimo. Di lì, come una rabdomante della poesia friulana la De Simone passa per Coderno, la frazione di Sedegliano, dove visse i suoi primi anni il ‘poeta degli ultimi’, padre David Maria Turoldo, e tira su dritto all’‘eremo’ quasi inaccessibile di Ida Vallerugo a Meduno. «Tra le ortensie blu del giardino della casa dei genitori, Quick saluta i passanti, è un piccolo cane sottratto alle violenze degli uomini e vive beato accanto alla ‘sua’ poetessa». Vento che ‘sversa’ a Nordest nella Pieve di Soligo del genius loci Andrea Zanzotto, che silente recitava: «Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio/ qui volgere le spalle» (da ‘Ormai’). «Le case che camminano sulle acque» di Zanzotto portano direttamente al mare e alla spiaggia di Grado. Lì viveva Biagio Marin nella casa vicino alla diga «che in primavera ha la terrazza invasa dal glicine».
Vicinissima a Grado è la Trieste di Umberto Saba e di Italo Svevo certo, ma è la lingua di Virgilio Giotti «un dialetto aristocratico», quella che va riscoperta nel piccolo Centro Studi messo su con dedizione e affetto dai nipoti, Vittorina e Fulvio. «Tra quei ricordi si respira un’aria pulita, come quella che sfiora i suoi libri, le sue poesie, il suo allucinato ’Paradiso’ perduto», che guarda all’Adriatico e al Mediterraneo tutto. Le marine di Sardegna che ammaliano Antonella Anedda, il rumore delle onde che si ascoltano dal balcone del piccolo vittoriale della resistenza che è la casa di Elena Bono, a Chiavari. Il mare aperto che ha attraversato Giuseppe Ungaretti, lasciando Alessandria d’Egitto e quel caffè­latteria in cui si incontrava con Kavafis.
«Ma è la casa dei nonni, nella città bianca di Lucca, quella impressa nella mente di Ungaretti. Così come quella di Anna Picchi a Livorno lo era per Giorgio Caproni », dice la De Simone che proseguendo verso Firenze sosta ai tavoli delle ‘Giubbe Rosse’ dove incontra il poeta Alessandro Fo , e immagina un colloquio surreale con il randagio Dino Campana arrivato a piedi con le sue chimere da Marradi. E ancora, dialoghi spirituali con Mario Luzi e onirici con Alfonso Gatto di passaggio in riva all’Arno, fino all’invito nella casa dagli scaffali che straripano di volumi nello studio di via Settembrini: il pensatoio di Alessandro Parronchi, caro a un altro poeta raffinato, Mario Graziano Parri. «Ora la gente esce fuor dalle case al primo freddo, ripassa lungo strade dove il vento muta i rami degli alberi», scrive Parronchi in ‘Luce di sera sull’orto’. L’inverno sta lasciando il posto alla primavera, odorosa di limonaia laggiù nell’isola di Sicilia. Ci sono case di poeti ingiustamente dimenticati come Ignazio Buttitta – a Bagheria – o i rifugi di quelli poco noti, come il giovane Salvo Basso, scomparso troppo presto a Scordìa. «Ma c’è anche la “casa-oasi” di Nino De Vita, voce rara di Cutusio (una delle 107 contrade di Marsala), autore di poemetti bellissimi che in quattro libri ha raccolto quasi tutte le parole di un dialetto ormai perduto, con la stessa pazienza con cui gli amanuensi nel Medioevo copiavano gli antichi manoscritti. La sua ‘Casa sull’altura’ è un po’ la metafora della fine di un tempo, di un mondo, di una lingua. Però, la poesia è memoria, e la memoria è salvezza». La poesia è anche l’unica forma di Libertà sperimentata da Marcos Ana, quando fu costretto a considerare la sua residenza una cella del carcere di Burgos: lì dentro venne recluso dal franchismo per 23 anni, fino al 1961. «Recitatemi un orizzonte/ senza serratura né chiavi/ come la capanna di un povero» (da ‘Ditemi cos’è un albero’), il grido dalle sue prigioni. Fine del viaggio nel passato, la De Simone ha un desiderio per il futuro: «Non conosco quelle degli stranieri, ma vorrei tanto andare in Svezia per vedere la ‘Casa blu’ del premio Nobel Tomas Tranströmer. Da lì passare in Norvegia, entrare per un attimo nella ‘capanna’ in cui da piccolo giocava Olav H. Hauge per provare quella piccola e innocente emozione che un po’ tutti abbiamo smarrito: ‘Infilarcisi dentro, sedersi»/ e ascoltare la pioggia’...».
Data recensione: 17/03/2013
Testata Giornalistica: L’Avvenire
Autore: Massimiliano Castellani