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In un racconto espistolare, edito da Mauro Pagliai, il senso ultimo delle cose si sottrae all’urgenza umana di accostarsi all’ineffabile

In un racconto espistolare, edito da Mauro Pagliai, il senso ultimo delle cose si sottrae all’urgenza umana di accostarsi all’ineffabile

«La gente dimentica tutto, mi dico nel sogno. Fra pochi mesi nessuno si ricorderà più delle montagne. “Montagne? Qui non ci sono mai state montagne” risponderanno a chi verrà a chiedere informazioni». Sogna montagne portate via da camion in lunghe file nelle autostrade, l’io narrante di questa lettera veneziana d’amore e d’eresia. Ancora nel sogno la “gentile signora” a cui lo scrivente si rivolge, la misteriosa figura che abita da qualche tempo la sua casa, sembra ammonirlo: «Avreste dovuto raccontare. Costruire una lingua, che so, un qualsiasi sistema di segni o figure. Mantenere un filo. E invece avete consentito che portassero via le montagne».
L’esistenza umana, le cose stesse del mondo, sono labili. Il tempo corrompe, deforma, divora. Ma, quel ch’è peggio, cancella anche la memoria di ciò che è stato. Possono le parole sfuggire all’oblio, dare un senso alle cose? O anch’esse sono un’illusione, una fiducia mal riposta, un’ulteriore prova di caducità, che invoca uno sguardo “oltre” il recinto del finito?
Sono queste domande, in fondo, le «apparenti inezie in odore di eresia» che Alfonso Lentini consegna al lettore, in un concitato e suggestivo racconto epistolare, dal titolo Luminosa signora. Lettera veneziana d’amore e d’eresia (Postfazione di Antonio Pane, Mauro Pagliai Editore, pp. 120, € 8,00). Una riflessione necessaria («un dovere morale»), con uno sviluppo in progress, che trova sostanza nella memoria e nel sogno e cerca sbocco nell’irrisolto anelito verso l’eterno. Una questione che si annida nella “Domanda Maggiore”, che il protagonista dichiara più volte di voler porre alla sua misteriosa signora, e a cui non necessariamente il lettore dovrà trovare (o troverà) risposta.
C’è un evento (o una serie d’eventi ravvicinati e concomitanti) nella vita di questo “fabbricante di libri”, che fa da spartiacque tra un prima e un dopo, segna l’infrangersi di un’illusione e l’inizio di un percorso di svelamento. È la morte del padre, e, prima ancora, la sua follia «che sopraggiunse come uno schianto». È il momento in cui si incrinano le certezze, le parole si svuotano di senso, gli oggetti iniziano a perdere consistenza, a deformarsi. È allora che un proiettile vagante ferisce l’autore della lettera al volto procurandogli una piaga che non smetterà più di sanguinare; e sangue sgorga dal rubinetto di casa al posto dell’acqua.
«Siamo invulnerabili perché combattiamo con le parole, e le nostre ragioni sono le nostre uniche armi». Incrollabile, risoluto e fiducioso negli ideali politici del comunismo e nella potenza della parola, col trascorrere del tempo, il padre inizia a dar segni di cedimento. Delusa la speranza in una “primavera dei popoli”, finisce per cedere alla follia. È allora che acquista una grossa stampatrice, come per aggrapparsi vigorosamente a quelle parole, a quelle certezze in cui ha creduto fermamente e che adesso sente sfuggirgli. Ma da quell’«insettone metallico» escono fuori «caratteri alla rinfusa», «parole senza senso». Sono i frammenti che adesso il figlio, nel piccolo laboratorio tipografico ereditato dal padre, assembla trasformandoli in libri da vendere ai turisti americani.
Sequenze di segni grafici prive di significato. Questo gli resta delle speranze del padre. E poi, con la morte del genitore, anche gli ultimi oggetti a lui familiari, come quel pianoforte abbandonato in una sala del manicomio in cui conclude i suoi giorni, iniziano inesorabilmente a deformarsi. Si accartocciano, assumono «l’aspetto che prendono le cose quando stanno per essere dimenticate: diventano incongrue, irriconoscibili, si contorcono, si aggrovigliano. Perdono la loro funzione e girano a vuoto».
È di questo ineludibile perire che l’autore pare chieder conto alla sua luminosa signora. A lei si rivolge, senza un progetto definito («non so se e cosa farò»), ma con numerose «confuse domande». Quale verità si nasconde dietro la “Domanda Maggiore” che lo assilla? Chi sarà questa misteriosa creatura («Il suo nome, signora; come vorrei conoscere il suo nome!») che da qualche tempo divide con lui il letto? Che vaga per la casa, digita messaggi sulla tastiera di un portatile e poi scompare portando con sé anche i suoi oggetti quotidiani. Che tutto illumina e riscalda. Che pare vivere in complice simbiosi con la Casa (che si espande e si contrae come un respiro, come «un giardino», «un cosmo vegetale») e con Venezia, la Città d’acqua, «piena di ritorni e di scomparse», in cui l’io narrante vive.
«Lei non sembra una prova, un tentativo. Lei esiste. Va, viene; ma esiste assolutamente. Mutevole sì, ma ricorrente». E nel descriverla l’autore adotta volutamente moduli e stilemi letterari ben riconoscibili, stilnovistici, danteschi e petrarcheschi (così come ritornano qua e là esplicite citazioni montaliane e kafkiane e deformazioni “espressionistiche”).
Familiare eppure sfuggente, casta eppure sensuale, intangibile eppure nuda e reale, oggetto di ammirazione panica e di desiderio carnale, la luminosa signora è una primavera eterna, che si sottrae all’oblio, che sfugge alle definizioni, alla finitezza e imperfezione delle parole umane.
Una presenza parallela, onirica o reale, che lo ignora di giorno, gli dorme accanto la notte e gli parla solo nel sogno. Donna, Angelo, Madonna, Madre, Sogno Erotico? Non è dato saperlo. Di certo, la sua apparizione provoca allo scrivente un «capogiro soprannaturale», lo spinge «con forza alle soglie di una conoscenza superiore, di un godimento spirituale».
La sua dimensione è il silenzio: «questo silenzio piumato è lo spazio concavo raccolto in una coppa di cristallo». Un silenzio che muove alla meraviglia, come per lo spettacolo del vecchio maestro che l’io narrante ricorda di aver visto da giovane, in compagnia del padre, far tacere l’orchestra e, tuttavia, continuare a dirigere nell’assenza di suoni.
Ma anche il protendersi verso questa entità fuori dal tempo risulta inappagato. Perché l’uomo con la sua caducità non riesce neppure a sfiorare ciò che sembra collocarsi “oltre” il finito.
«Se fossimo compiuti ci basterebbe una sola parola. Una parola sola per salvarci tutti», scrive il fabbricante di libri. Ma compiuti non siamo, sembra dirci Lentini, e aggrapparci con tenacia alle parole non ci sottrarrà a questo destino. La parola, la scrittura aiutano a perpetuare la memoria. Ma non bastano. Anche le parole finiscono per impazzire. Inutilmente e disperatamente il tipografo assembla, stampa e vende piccoli volumi. Dentro ci sono solo sequenze di lettere senza senso: l’eredità lasciata dal padre, insieme con quell’immagine di oggetti accartocciati, deformati.
Il mondo «perde pezzi, si sfarina, assume consistenza porosa». Scompaiono le montagne, e con esse, anche la “Domanda Maggiore” comincia a perdere consistenza: «coincide a poco a poco con lo sfaldamento del mondo». Ma allora a cosa servono le parole, dove porta questo farneticante interrogarsi sul senso?
La risposta Lentini sembra consegnarcela in queste poche righe: «Eppure, via via che scrivevo, sia pure confusamente, qualcosa ho capito. Ho capito almeno qual è la crosta della domanda, ho capito che è davvero “impronunciabile”. Non può essere ingabbiata in una sequenza di parole, abita nelle cose, è l’ossatura stessa di questo sfarinamento progressivo che va avanti da millenni. È nel fatto che tutti noi non siamo che impronte, prove, tentativi venuti male di una creazione incompiuta».
Data recensione: 01/05/2012
Testata Giornalistica: Excursus
Autore: Saverio Vasta