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Parigi era viva. La capitale dell’arte del ventesimo secolo – riproposto dall’editore Mauro Pagliai (pp. 296, euro 22) – è un libro difficile, come tutti i libri di ricordi, tessuti di ambizioni, ritrosie, tenerezze e frustrazioni. Gualtieri di San Lazzar

Torna Parigi era viva di Gualtieri di San Lazzaro: le memorie ’25-’43 (e poi oltre) di un appassionato che voleva democratizzare il mercato dell’arte.

Parigi era viva. La capitale dell’arte del ventesimo secolo – riproposto dall’editore Mauro Pagliai (pp. 296, euro 22) – è un libro difficile, come tutti i libri di ricordi, tessuti di ambizioni, ritrosie, tenerezze e frustrazioni. Gualtieri di San Lazzaro, editore d’arte, vi narra delle sue giornate parigine dal 1925 al 1943, poi di un breve passaggio nella Roma “città aperta” fino al 1945, e di nuovo del soggiorno francese; e se ne citano spesso i brani dedicati alle visite nello studio di Kandinsky o di Picasso, che potrebbero però essere più le esemplificazioni con astuto dispiegamento di acume psicologico che descrizioni condotte sulla scorta di reali tranche de vie, soprattutto per lo schema di contrapposizione che se ne deduce. La villa del russo a Neully è un eden dove dai quadri nell’atelier al samovar sul tavolo tutto è contraddistinto da un languore dolcissimo e smaterializzato; la figura dello spagnolo, diluita per tutta la narrazione, assume quasi il ruolo di un comprimario: passeggia silenzioso nella cupa Parigi che presente la guerra, poi campeggia narciso nella villa di Antibes, in competizione con Françoise Gilot per recitare il ruolo del prim’attore; e ancora schiaffeggia metaforicamente il suo mercante Kahnweiler che nel 1951 insiste per proporgli il catalogo, dall’Italia, della grande mostra milanese sui Caravaggio: «Ma se sono quarant’anni che vado dicendo che questo falso realismo no è pittura, ma teatro!».
A una prima lettura potremmo inserirlo tra le autobiografie in incognito, per l’uso della terza persona che sotto il nome di Silvio nasconde lo stesso autore, ma dovremmo allora concludere per un giudizio no davvero entusiasmante: la scrittura scorre senza troppe increspature, accesa certo da aneddoti e riflessioni politiche, ma l’immagine che restituisce, di Montparnasse e dei suoi frequentatori, non sembra aggiungere molto a un segmento della vita artistica tra le due guerre ormai ben dissodato da numerosi contributi di una storiografia che negli ultimi vent’anni ha riservato attenzione e approfondimenti a un periodo prima negletto. Ma è proprio in questo che risiede la chiave di lettura più interessante, e corretta, di questo libro, ripubblicato ora a cura di Luca Pietro Nicoletti, dopo l’edizione nei Pocket Mondadori del 1996, che seguiva, ampliata, la prima, uscita nel 1949: è necessaria la considerazione del divario che separa un lettore di oggi da un lettore degli anni Sessanta e più ancora da un lettore dell’immediato dopoguerra.
Non erano lontani quei ricordi, quando a Parigi era viva fu assegnato nel 1949 il Premio Bagutta per l’opera prima, e le pagine sull’esodo parigino di fronte all’avanzata dei tedeschi, che allora erano quelle finali del libro, dovettero certo colpire un nervo scoperto. Gualtieri trovava accenti di grande intensità nel ricordare il suo incontro con Crémieux, poi morto in un campo di concentramento, che lo convoca e gli chiede cosa si potrebbe fare contro l’imminente e sicura dichiarazione di guerra da parte di Mussolini. E che allo sconcerto di Gualtieri – «Mussolini ha da un pezzo rinunciato agli italiani in Frnazia» 0150 risponde: «Ne terrà conto la Francia». «Mussolini stava per aggredire la Frnacia – conclude San Lazzaro – ma Crémieux, in divisa da capitano, pensava ancora ai suoi amici italiani». E poco dopo ricordava i giovani poeti amici della Frnacia: Quasimodo, De Libeor, Sinisgalli e Carrieri che, no a caso, sarà l’autore di una delle più acute recensioni per l’edizione del 1966.
emerge così uno dei possibili temi conduttori del libro: il ruolo della douce France e di Parigi per gli intellettuali e gli artisti dell’Italia fascista, che si rinnovava a partire dal 1947 quando nella Roma liberata si poteva pensare di organizzare una mostra su Italia e Francia, e i giovani Accardi Perilli Sanfilippo partivano per Parigi, come a colmare un’astinenza troppo protratta dalle fonti della modernità. Certo Parigi è la città che «vive di capricci», come Picasso confida a San Lazzaro, e vampirizza i suoi figli migliori, come Modigliani, mitica figura che aleggia nelle strade e nei caffè di Montparnasse, ma è anche la metafora della libertà contro la tirannia: metafora, potremmo concludere noi, della femme fatale che il parigino Baudelaire ha fissato nell’immaginario di molti.
In quella Parigi prima allineata al «ritorno all’ordine», poi investita dall’entusiasmo del Fronte Popolare, dove Picasso espone Guernica, San Lazzaro ha un modello di cui percepisce lucidamente la non compatibilità con la sua cupa melanconia da «maledetto siciliano»: Vollard, il mercante di Renoir e soprattutto di Cézanne. Non potrà competere con lui, ma diverrà una figura altrettanto emblematica del mercato artistico, dedicandosi all’editoria: «I ricchi comprano i quadri. I poveri devono contentarsi delle monografie. Matisse e Picasso dipingono per i capitalisti e a me tocca restituirli ai poveri». Affermazione paradossale, semplificata dunque, ma che può orientare verso un problema vero: lo slittamento del collezionismo verso un surrogato dell’opera pittorica, dovuto all’ampliarsi della curiosità del pubblico, e alla necessità di una diffusione a livello alto, ma a costi accessibili. E in questo risiede l’interesse di una biografia di Gualtieri che con le edizioni de Les Chroniques du jour non solo seppe documentare la storia dell’arte in Francia, dai nomi più noti come Cézanne, Matisse e Picasso a personalità non allineate, come Gromaire, Kisling e Friesz; ma intrecciò rapporti con un editore del calibro di Anton Zwemmer, le cui vetrine londinesi erano, nei ricordi di Kenenth Clark, «delirious exciting», nel panorama non confortante dell’editoria londinese nei primi anni Venti.
A scorrere l’elenco dei titoli pubblicati in dieci anni, dal ’28 al ’38, si intravede un altro dei temi portanti delle memorie di San Lazzaro, che è insieme uno dei motivi d’interesse per la sua figura: la convinzione che all’esterno del «grandioso quadrilatero»: Picasso, Matisse, Léger, Braque, cresceva una felice alternativa di giovani e meno giovani che potevano attrarre collezionisti e amatori: Magnelli e Marino Marini, Vieira da Silva e Dufy, Vlaminck e Marquet. Una lettura che scavalca gli anni della guerra per riproporsi all’inizio dei Cinquanta, quando rientrato in Francia dopo l’intermezzo romano San Lazzaro sosterrà con la rivista «XXme siécle» la nuova Scuola di Parigi: Bazaine, Estève, Manessier, Hartung, Poliakoff e ancora Vieira. Non c’è stata molta attenzione per questi artisti così amati da Gualtieri, che il destino ha costretto tra quel grande quadrilatero, la cui ombra si è distesa fino al dopoguerra, e il repentino rivelarsi, proprio negli anni Cinquanta, dei nuovi miti americani; esponenti di un interesse per il segno che seguiva strade più sottili dell’epica pennellata dell’espressionismo astratto, sono rimasti sospesi in un limbo di astrazione che non poteva neppure competere con le algide sperimentazioni dei minimalisti.
Data recensione: 12/02/2012
Testata Giornalistica: Alias de «Il Manifesto»
Autore: Barbara Cinelli