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«Le meretrici non possono portare vesti di drappo e seta d’alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero asciugatoio o fazzoletto

«Le meretrici non possono portare vesti di drappo e seta d’alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero asciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito d’oro o di seta o di altra materia gialla e in luogo che possa essere veduta da ciascuno». La legge sulla prostituzione, voluta da Cosimo I nel 1546, colpiva le signore della notte che stavano nel bordello (all’epoca “chiasso”), ma anche le “cortigiane”. Figure a metà tra la seduzione professionale e l’arte (molte di esse si dedicarono alla letteratura, come Veronica Franco), che nel tardo Rinascimento si trovarono in una posizione difficile, in un mondo che di lì a poco avrebbe emarginato i piaceri del corpo, sotto la sferza della Riforma.
Un anno prima della legge medicea era arrivata a Firenze proprio una delle più famose tra queste signore, Tullia d’Aragona (1508 circa-1556), dama bella e sapiente, che legò a sé molti degli uomini rilevanti del tempo suo. Ella ebbe veri e propri fanatici e altrettanto accaniti detrattori, anonimi e in luce, tra cui Giraldi Cinthio che la presenta in un suo racconto come l’abietta prostituta Nana. Per nessun motivo ella avrebbe voluto adottare il velo del disonore, e per questo scrisse, con successo, una supplica alla duchessa Eleonora di Toledo, spiegando che non faceva “i portamenti che l’altre fanno”, ma che anzi stava in casa e cercava di diventar famosa per la sua scrittura. Nei tempi in cui fu in Riva all’Arno, la dama volle dar conto della sua visione dell’eros, in un dialogo famoso: Dell’infinità di amore. In questo testo, che oggi viene riproposto da Mauro Pagliai, in appendice all’interessante studio di Monica Antes (Tullia d’Aragona cortigiana e filosofa, pp. 189, euro 15), ella dialoga con Benedetto Varchi e con Lattanzio Benucci, umanista senese che nel testo butta all’aria l’ordinata visone dell’autore de L’Ercolano. Con tutta la sua sapienza nel mondo della passione, Tullia resta celebre soprattutto per una serie di sonetti di amore disperato, dedicati all’oggetto di un suo trasporto non ricambiato. Colei che dell’amore aveva fatto maestria, si inchina, disperata, di fronte a Piero Manelli, suo unico amore dichiarato. Il modello petrarchesco qui si accende di una luce intensa, nel momento in cui l’autrice ammette la propria sconfitta. «E con sì acuto spron mi punge il fianco/ ch’io temo sotto i primi empi martiri/cadere,/e per men mal bramar la morte». L’infinità di amore si spiega nella stessa esperienza della dama come esperienza del proprio limite, vissuta senza risparmio.
Data recensione: 22/01/2012
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Luca Scarlini