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Uno studio traccia la storia dei titoli più venduti nel periodo della monarchia, da D’Annunzio alla dimenticata Carolina Invernizio. Tra feuilleton e grandi opere, terribili stroncature e fortune di pubblico, grandi successi economici e pessimi affari

Uno studio traccia la storia dei titoli più venduti nel periodo della monarchia, da D’Annunzio alla dimenticata Carolina Invernizio. Tra feuilleton e grandi opere, terribili stroncature e fortune di pubblico, grandi successi economici e pessimi affari.
Roma - Nel 1883 Collodi vendette i diritti del suo “Pinocchio” per appena 1000 lire, più o meno lo stipendio annuale di un impiegato. Avesse creduto di più nella sua opera, che considerava “una bambinata”, e avesse chiesto uno dei contratti a percentuale che avevano preso piede da qualche anno, sarebbe divenuto ricchissimo. È una delle storie poco conosciute dell’editoria italiana raccontata da Michele Giocondi nel suo studio “I best seller italiani. 1861-1946” (pp. 272, euro 20), in uscita il 20 dicembre per Mauro Pagliai Editore. Un volume che risponde a un interrogativo: cos’hanno in comune D’Annunzio, Fogazzaro e De Amicis con Luciano Zuccoli, Salvatore Farina, e Carolina Invernizio? Forse non la stessa fama, e nemmeno lo stesso spazio nelle antologie e nello scaffale dei classici. Eppure, sono tutti autori di grandi bestseller che, nel periodo compreso tra l’Unità d’Italia e il referendum istituzionale del 1946, hanno appassionato centinaia di migliaia di persone. “Fino alla Grande guerra era considerato un bestseller un libro che in cinque anni vendeva diecimila copie, col fascismo si salì a 20 mila - spiega al Velino l’autore -. I romanzi d’appendice, tanto popolari all’epoca, non erano grandi capolavori eppure potevano superare quota 100 mila. E comunque un certo valore l’avevano: il fatto che venissero letti anche dalle classi inferiori era comunque segno dell’alfabetizzazione del Paese”.
Frutto di un lungo lavoro di ricerca, il libro individua una lunga serie di scrittori accomunati dalla fortuna commerciale e di ognuno, insieme a un profilo della vita e dell’opera, ripropone un brano tratto dal libro più venduto, con numerose schede di approfondimento che consentono di far luce sui vari aspetti della letteratura “di massa”. Storie dimenticate, come la tragedia umana di Emilio Salgari: nonostante gli incassi stratosferici delle sue opere, firmava contratti così poco avveduti da essere travolto dai debiti e costretto a scrivere fino a tre libri l’anno per onorare gli impegni assunti, fino alla decisione estrema del suicidio. Poco tagliata per gli affari era anche un’altra dileggiata per eccellenza dalla critica: Carolina Invernizio: l’“onesta gallina della letteratura popolare” (Antonio Gramsci) si accontentava di un vitalizio mensile anziché cercare di legare le sue entrate al successo dei suoi feuilleton. De Amicis, invece, col suo “Cuore”, vendeva mille copie al giorno in tempi in cui era considerato bestseller i libri che arrivavano a quota diecimila (contro le 200 mila odierne). Strappando un contratto a percentuale, divenne ricchissimo. E continuò a vendere anche con le altre opere, oggi tutte per lo più dimenticate, dai romanzi alle corrispondenze dalle nazioni estere.
Ottimo fiuto aveva pure D’Annunzio, che dall’editore Treves riusciva a ottenere contratti che gli assicuravano il 20 e a volte perfino il 25 per cento delle vendite (contro una media del dieci per cento degli altri scrittori). Un successo, il suo, del tutto trasversale. Per le sue opere, come anche per quelle di Pirandello e Fogazzaro, i critici hanno adottato il termine di “lettura condominiale”, in grado di conquistare tanto i semianalfabeti quanto le persone colte. Garanzie di successo, a ogni nuova opera sfornata. Eppure neppure il Vate poteva nulla davanti a un autore come Guido Da Verona, il “volgarizzatore” del Decadentismo, in grado di vendere dieci volte tanto. Un perfetto dandy che viveva negli alberghi di lusso, dove dissipava le fortune accumulate con le sue opere, prolifico come pochi (oltre 70 romanzi) e con vendite da capogiro per l’epoca: 160 mila copie per Sciogli la treccia, Maria Maddalena, addirittura 300 mila per “Mimì Bluette, fiore del mio giardino”, che coi suoi ammiccamenti erotici divenne il libro più letto dai soldati italiani nelle trincee della Grande Guerra. Titolo oggi del tutto sconosciuti. Il filosofo e saggista Adriano Tilgher lo etichettò Da Verona come “il D’Annunzio delle dattilografe e delle manicure”. E lui, per ripicca, scrisse “Lettera d’amore alle sartine d’Italia”. Un successone, neanche a dirlo.

Data recensione: 16/12/2011
Testata Giornalistica: Il Velino
Autore: Paolo Fantauzzi