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Il grande scienziato Eddington ci insegnava a convivere con “due tavoli”: quello dell’esperienza sensibile, solido, greve, colorato, e quello della fisica

Il grande scienziato Eddington ci insegnava a convivere con “due tavoli”: quello dell’esperienza sensibile, solido, greve, colorato, e quello della fisica, un nugolo di atomi nel vuoto. Un tavolo visibile e tangibile, descrivibile col linguaggio di tutti i giorni, e un tavolo inosservabile, di cui solo la matematica, e tutt’ al più una metafora, può parlare. Due mondi, due linguaggi; un’immagine manifesta del mondo e la sua realtà profonda, che il romanzo di Lia Tosi gioca a far collidere e collassare, producendo l’effetto di una implosione cosmica, in cui la superficie materiale lascia trasparire il vuoto (l’inane, il “negativo di Dio”) che ne è l’ essenza, e rende le persone fantasmi, le cose apparenze. Il mondo è la città di Pistoia, ribattezzata Pè; che è un simulacro, una cornice spettrale di senso, ma più reale delle figure che vi si muovono e soffrono come ombre, memorie senza tempo, ripetizioni stanche di gesti e di parole. Accadono fatti, tra questi un inquietante Fatto Nero, ci sono amori e passioni, intrighi e sospensioni, c’è anche qualche riferimento che colloca nel tempo gli eventi (i russi del dopo Breznev), ma il racconto sembra indifferente alla diacronia, bastandogli quell’unità di luogo. Il signor Inane è una potente allegoria della fine incipiente, di un’attesa rassegnata al grande silenzio (“Aspettava la sua ora nella notte. Per riunirsi nel grande silenzio a tutto”). Ma la fine è già in quei sentimenti esangui e delusi, involuti nei ricordi e nell’impotenza; è già nella coazione a ripetere movenze e pensieri stereotipi: “la pelle che ti fanno attorno quelli da cui sei nata, e dentro di loro sei”. Personaggi che non hanno uno spessore psicologico (tranne Maria, l’unica a meritare dall’autrice uno sguardo pietoso), che sembrano automi, prodotti da una matrice che ha perduto la sua ragione, e che ora rivela solo gli scricchiolii della materia di cui li forgia. E l’autrice, più che raccontarci il senso dei loro atti, percepisce il rumore dei loro corpi, financo dell’energia e degli atomi di cui son fatti; e li vede macchine, non diverse da assemblaggi di lamiere e metalli senz’anima (una donna è “lì lì per diventare automobile”), o comunque un misto di natura e di scorie della tecnologia e della chimica. Nel rivolgimento del tutto, infatti, “sparivano le differenze” (anche tra il vivo e il morto, giacché le trame degli eventi sono interrotte da visioni, da squarci di inconscio: persino un ribollire di anime infernali che si intromettono, non meno reali di quell’evanescente comunità, e parlano lingue in cui risuonano versi danteschi, toni incongruamente aulici). Il caos. Il caso; come è sempre stato, secondo l’epicurea-lucreziana idea del clinamen, deviazione spontanea e casuale degli atomi dal loro corso che produce la storia, un nulla che prelude al nulla. Dostoevskji, Kafka, Landolfi (e anche il Jarry affascinato dall’idea del clinamen), trasparenze discrete in un gotico postmoderno di straordinaria efficacia e novità.
Data recensione: 12/06/2011
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Alessandro Pagnini