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Pè è una cittadina toscana di piccole dimensioni dalla bellezza timida e severa dove tutti si conoscono e dove ogni evento o accadimento è presto universalmente noto

Pè è una cittadina toscana di piccole dimensioni dalla bellezza timida e severa dove tutti si conoscono e dove ogni evento o accadimento è presto universalmente noto. In questo scenario, dietro il quale non è difficile riconoscere le sembianze di Pistoia, si muovono i personaggi del Signor Inane, intenso, inquietante romanzo della slavista Lia Tosi, ambientato verosimilmente nei primi anni Novanta.
Va innanzitutto sottolineato come questa opera si snodi attraverso una serie di trame tra loro collegate dal tema centrale della misteriosa sparizione, durante un soggiorno nell’isolato borgo di Ventato (forse una reminiscenza del petrarchesco Monte Ventoso?) di Giulio, il figlio adolescente della benestante signora Marini, il quale si è messo in testa di rinunciare ai beni materiali e di vivere alla maniera di San Francesco, ma tali trame tendono ad assumere strade autonome per poi, semmai, rincontrarsi in una sorta di allucinato groviglio così simile all’intrico dei vicoli del cuore medievale di Pè.
Tra i numerosi personaggi che popolano l’opera, ognuno dei quali legato alle sue abitudini di provincia, alle sue inossidabili convinzioni e alla sua idiosincrasia, spiccano due figure: innanzitutto, Didaco Puccini, ex-studente universitario di belle speranze ed ex-professore del liceo, che si trova inchiodato nella gestione di una cartoleria invero quasi interamente delegata alla vecchia commessa signora Adele e alla figlia di questa. Didaco è anche il marito separato di Tatjana, un’avvenente donna russa che egli ha sposato onde consentirle di ottenere il visto per l’estero e dietro promessa che poi di lei si sarebbe occupato un comune amico in procinto di liberarsi da precedenti impegni sentimentali. Ma questa promessa è rimasta lettera morta; dunque Didaco si trova a ospitare in casa sua Tatjana, per la quale peraltro ha sviluppato negli anni attaccamento e affezione che lo trattengono dal chiedere il divorzio, il fratello di lei, Nikita, artista semifallito e pervicacemente attaccato a modelli esistenziali veterostaliniani, nonché i più vari parenti e amici, tra cui una Ljuba dal nome montaliano, verso i quali il protagonista avverte sentimenti altalenanti e pur tuttavia spesso venati di insofferenza soprattutto per il loro uso della lingua russa, a lui scarsamente nota, che gli provoca un senso profondo di estraneità. Didaco si trova, inoltre, schiacciato dalla responsabilità di essersi allontanato da Ventato, dove si trovava in qualità di precettore di Giulio, offrendo così al giovane l’occasione di fuggire.
Vi è poi Maria Rossi, protagonista anche dell’“extravagante” antefatto in cui ella percepisce di essere aggredita, nel ventre del garage condominiale, dall’anima di papa Niccolò III fuggita dall’inferno dantesco attraverso i tubi del gasolio e mossa da violenti impulsi sessuali nei suoi confronti. L’abbinamento onomastico a cui questo personaggio è soggetto la rendono, all’apparenza, una figura al grado zero, sommo paradigma di ogni banalità. In realtà Maria, dimessa nel fisico e nell’aspetto, imprigionata in un infelice matrimonio con Marcello e nella quotidianità grigia e frustrante di un insegnamento scolastico che non le dà soddisfazione, vittima delle angherie dei colleghi e delle beffe degli studenti, è al contrario persona dotata di una profonda dimensione spirituale e di un notevole patrimonio culturale: proprio dalle sue parole, pronunciate durante il commento in classe del lucreziano De rerum natura, deriva la parola-chiave del romanzo, il termine “inane”, ovverosia “vuoto”, che ricorre poi molte volte in queste pagine e che, se allude alla vacuità della vita di tanti péesi, evoca anche una più precisa entità, quel “signor Inane” da cui prende il titolo il romanzo e la cui identità (un fantasma, una sperequazione intellettuale, un essere in cui si sommano i difetti di tutti i péesi, ovvero un personaggio del romanzo a cui viene attribuito questo soprannome) resta uno dei punti interrogativi dell’opera.
Accanto a queste considerazioni, non può certo sfuggire la sottile trama dantesca del romanzo, non solo per l’ambientazione in una realtà architettonica medievale che sembra a tratti evocare il rosso profilo della città di Dite, ma anche per le continue suggestioni stilnovistiche della colta Maria, soprattutto nel suo non corrisposto trasporto per Didaco Puccini, nelle sue visioni fatte di gerarchie angeliche e di una fantasmagoria di luci e suoni, nonché in certi passaggi sulfurei come la già citata apparizione dell’anima dannata di Niccolò III nell’esordio extravagante. Parallelamente, non casuale è la scelta del boccacciano nome di Fiammetta per la donna che Didaco vagheggia fin dagli anni dell’università e per conquistare la quale chiede a Maria, con una forma di crudele ingenuità, di farsi latrice di una lettera: ma Maria non la recapiterà, affogando così i sogni di Didaco nell’acqua dello scarico che si mangia i frammenti della missiva ridotta in pezzi, e lasciandosi infine catturare dalla più cupa depressione, persa ormai ogni speranza di vedere corrisposti i suoi sentimenti e costretta peraltro a subire le assillanti telefonate del Puccini che, vedendo in lei solo un’amica, cerca conforto per la mancata risposta di Fiammetta. Giustamente Sandro Melani ha parlato, nella sua prefazione al Signor Inane, di una vena gaddiana che si esplica nel pastiche linguistico, giocato sulle commistioni con il russo, parlato dagli ospiti di Didaco, su elementi vernacolari, nonché sulla creazione di estrosi neologismi: da parte mia, vorrei aggiungere che il gaddismo di questo romanzo si manifesta anche nella non definitiva risoluzione dei due gialli che in esso si delineano, analogamente a quanto succede tanto nella Cognizione del dolore quanto nel Pasticciaccio dove la verità è, sì, intuibile, ma non chiaramente delineata dall’autore.
Il primo filone “giallo” del romanzo è infatti quello legato alla sparizione di Giulio, che verrà poi avvistato, tanto dagli investigatori privati ingaggiati da sua madre, quanto da amici e conoscenti, nelle più varie zone d’Italia intento in singolari forme di meditazione e predicazione, fino a essere riconosciuto, con certezza ragionevole e pur tuttavia non assoluta, da Simona, una compagna di scuola, nelle sembianze di un postulante che si aggira in via Calzaiuoli, a Firenze, e che resta vittima di un’aggressione da parte di cinque giovinastri griffati.
Il secondo filone, a nostro parere ancor più inquietante del primo, riguarda il rapimento di Dino Bini, (anch’egli, come Maria Rossi, dotato di un nome al grado zero) da parte delle così dette «Brigate Ficazze», dietro le quali pare intuire che si nasconda Patrizio Petrucci, studentello ricco e viziato, dotato di un’evidente dose di sadismo già perfettamente percepita da Maria Rossi a sua volta vittima, in quanto sua insegnante, delle angherie di Patrizio. Dino è ormai vecchio, vedovo e senza figli: egli è dunque una preda facile per le Brigate Ficazze che lo rapiscono una sera all’ora di cena e lo rinchiudono nel buio di una cantina, verosimilmente collocata in un casolare di campagna di proprietà del Petrucci il quale lo aveva ricevuto come sproporzionato, arrogante regalo per i suoi diciotto anni. Il povero vecchio viene ridotto in uno stato di schiavitù, privato anche del nome proprio, convinto, a tratti, di trovarsi in una sorta di reality show ai cui crudeli meccanismi di selezione dei beniamini da parte del pubblico egli attribuisce il suo essere in seguito “caduto in disgrazia” presso gli aguzzini, terrorizzato tramite la prospettiva di essere condannato alla morte per asfissia, infine murato nel buio più totale, quando gli viene negato, oltre che un’alimentazione regolare, anche il conforto di un lumino, unica cosa, quest’ultima, che egli continuerà a chiedere ai suoi carcerieri con implorante e pur testarda insistenza.
Alla prigione di Dino Bini si avvicineranno un giorno Didaco e Maria, essendosi recati in esplorazione nella campagna péese a seguito delle insistenze della donna, convinta che Giulio possa essere stato rapito e ridotto in schiavitù da Patrizio Petrucci (peraltro, il pestaggio di cui è vittima il postulante identificato con Giulio nella fiorentina via Calzaiuoli è verosimilmente opera proprio delle Brigate Ficazze). Ma i due, giunti al casolare del Petrucci quando ormai è sera poiché il loro passo si è rallentato a causa di numerose pause meditative e, per così dire, stilnovisticamente elaborate, fanno solo in tempo a vedere i membri delle Brigate Ficazze che si allontanano su rombanti motociclette: Didaco e Maria decidono dunque di tornare a casa, ripromettendosi di fare ritorno al casolare in una successiva occasione che mai si darà. Ed è così che la reale natura delle Brigate Ficazze, che pur Maria aveva intuito, resta ignota ai nostri protagonisti e alla sonnacchiosa Pè, così interessata alle sorti del giovane Giulio ma incapace perfino di accorgersi della sparizione del povero vecchio Di no, in una sorta di percorso di sconfitta che infine cattura, insieme a Didaco e Maria, anche gli altri personaggi del romanzo, le cui scelte e i cui obiettivi sono invariabilmente mossi da un desiderio di profitto e di utile inevitabilmente destinato a ritorcersi loro contro.
Data recensione: 01/01/2010
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Costanza Geddes da Filicaia