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Nell’Italia di questi anni, un Paese spaccato in due opposte fazioni separate da differenze insuperabili sul piano politico, culturale - e, sostengono molti, persino antropologico - non può non destare stupore l’esistenza di una corrente di "pensiero" in grado di imporsi come una sorta di credo ecumenico, una fede universale non contraddetta se non da sporadiche voci di dissenso. No, non stiamo parlando della nazionale di calcio campione del mondo, bensì della chiesa enogastronomica degli italiani e del suo vaneglo: il movimento Slow Food e i suoi dogmi.
Nato nel 1986 come AeciGola, il movimento guidata da Carlo "Carlìn" Petrini ha rivelato subito una rara capacità di liberarsi da quei condizionamenti politici che avrebbero potuto frenarne l’espansione, alla quale ha giovato non poco l’indubbia capacità comunicativa del suo leader (sempre unita, peraltra, a un fium rabdomantico per flussi di denaro pubblico di ogni provenienza).
Oggi il movimento slow (il cui logo è appunto una chiocciola) si configura ed è in grado di agire come una sorta di multinazionale dell’antiglobalismo culinario con filiali in tutti i paesi d’Europa e negli Stati Uniti. In Italia, come ogni multinazionale che si rispetti, Slow Food riesce ad influenzare pesantemente le scelte politiche in un settore cruciale come quello agroalimentare, e di fatto alcuni de dogmi fondamentali del movimento (quale ad esempio, l’opposizione radicale agli OGM) sono stati fatti propri, a prescindere dal loro schieramento di appartenenza, da tutti gli ultimi ministri delle Politiche Agricole.
Sul piano della comunicazione il discorso slowfoodista, basato sulla riproposizione incessante del rifiuto dell’agricoltura intensiva, industriale e di "massa" in favore di una miriade di produzioni d nicchia realizzate con metodi "tradizionali", ha conquistato un dominio pressocchè assoluto, e le voci dissidenti sono davvero rare.
Il catechismo 
Tra i critici di Slow Food, finora nessuno si era spinto ad analizzarne il catechismo con la sistematicità e la cura analitica mostrate da Luca Simonetti nel suo recentissimo Mangi chi può: meglio, meno e piano. l’ideologia di Slow Food (Mauro Pagliai Editore, pp.120, euro 8). Basandosi su un campione vastissimo dei documenti che nel corso degli anni hanno posto le basi ideologiche del movimento, Simonetti è abilissimo a metterne in luce le contraddizioni, la vistosa incoesistenza storico-filosofica e la mancanza di ogni fondamento teorico in campo economico, così come ad individuare le ragioni sociali e psicologiche che ne hanno determinato il rapido successo.
Nato all’epoca della diffusione in Italia dei fast food, il movimento di Petrini si proponeva allora di reagire a quella che percepiva come una calata dei barbari ben decisi a spazzar via le tradizioni culinarie del nostro Paese nel nome della globalizzazione del gusto. In realtà, non risulta che i fast food abbiano mai messo realmente in questione le ben radicate abitudini alimentari degli italiani, ma Mc Donald’s e simili - multinazionali americane votate alla diffusione di cibo a basso prezzo caratterizzato dal suo essere uniforme in ogni parte del mondo - rappresentano un bersaglio polemico perfetto. Erano il simbolo di una visione produttivista della vita da rifiutare in blocco. Non per niente i testi di Slow Food dipingono i loro avventori come subumani stupidi e tristi, schiavi della frensesia capitalista e interamente votati alla "produttività" (un concetto che nel discorso di Slow Food ha annotazioni fortemente negative).
tutt’altro esemplare umano è, invece, lo slow man: ben consapevole che il cibo è cultura, egli è un individuo rispettoso delle differenze, si interessa delle modalità di coltivazione o di allevamento dei prodotti di cui si nutre, frequenta osterie e locali "tipici", è disposto a pagare profumatamente i prodotti "tradizionali" e "naturali" che predilige e ama intrattenersi
Data recensione: 07/05/2010
Testata Giornalistica: Libero
Autore: Ernesto Aloia