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Non per citare la nota canzone di Gaber, destra e sinistra “è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra e destra”, ma mi sono sempre chiesto, se, per esempio, il noto movimento, culturale e gastronomico, Slow Food, fondato da Carlo Petri

Il nuovo saggio di Luca Simonetti “l’ideologia di Slow Food”. Un’analisi tecnica, economica, filosofica e giuridica del movimento fondato nel 1986 da Carlo Petrini. Ci si chiede se sia catalogabile a destra o a sinistra
Non per citare la nota canzone di Gaber, destra e sinistra “è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra e destra”, ma mi sono sempre chiesto, se, per esempio, il noto movimento, culturale e gastronomico, Slow Food, fondato da Carlo Petrini nel 1986 (prima si chiamava Arcigola), sia catalogabile a destra o a sinistra. Per non trovarsi allora impantanati nell’incresciosa dicotomia politica, sarebbe, credo, sensato, capire se i modelli a cui Slow Food s’ispira provengano da una tradizione reazionaria o invece rappresentino l’anima di una cultura progressista, sia pure in fieri. Una risposta a questa domanda finora, come dire, sospesa, è arrivata da un piccolo, bello e credo, importante (per ragioni che cercherò di spiegare) saggio, mangi chi può, meglio, meno e piano (l’ideologia di Slow Food), scritto da Luca Simonetti e pubblicato da Mauro Pagliai editore. Prima di tutto, perché un saggio per esaminare l’ideologia di Slow Food? Le ragioni le spiega lo stesso Simonetti nella sua introduzione “l’oggetto della ricerca (analizzare l’ideologia di Slow Food attraverso l’esame di un’ampia scelta di testi) potrà sembrare stravagante (…), eppure (…) le idee che Slow Food propone in materia di alimentazione, cibo e cultura, sono ormai condivise da una buona parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche italiane (…) nel 2008 i programmi di tre principali partiti, indicavano quali obiettivi da perseguire, lo sviluppo delle filiere “corte”, l’introduzione dei Farmer’s markets, la lotta contro la biopirateria, il rafforzamento dell’agricoltura biologica: tutti obiettivi di Slow Food”.
Vuol dire che in materia di agricoltura e cibo le posizioni dei tre partiti, destra, sinistra e centro, sono identiche, dunque, viene annullata qualsiasi differenza di vedute. A questo punto il ministro dell’Agricoltura lo si potrebbe estrarre a sorte. Dunque, c’è da capire se sono tutti d’accordo nel ritenere questi obiettivi validi o forse, le suddette opinioni, sono il risultato di una notevole pigrizia culturale alla quale i nostri politici e i nostri opinion maker si sono, da tempo, lascivamente abbandonati.
C’è poi un’altra ragione. Slow Food - come ricorda Simonetti, prendendo a notifica, una dichiarazione di Petrini - è una vera e propria multinazionale, capace di raccogliere finanziamenti su larga scala, di concludere accordi e collaborazioni con governi e imprese di grandi dimensioni e mobilitare a proprio sostegno uomini politici e personalità del più vario orientamento. Ci troviamo dunque di fronte a uno strano fenomeno: da una parte un movimento che dibatte sulla lentezza, e sul volto nobile dei contadini di una volta, che si oppone agli strumenti del miglioramento genetico (Petrini pensa ancora che i contadini si scambiano i semi, e ignora l’esistenza dell’ente nazionale delle sementi elette, oppure lo dice così, tanto per scandalizzare gli agronomi e i genetisti?) e contrasta con forza l’agricoltura industriale.
D’altra parte, lo stesso movimento, si articola e si muove in ambito industriale, insomma è, in quel senso, molto fast e poco slow. Il piccolo saggio di Simonetti riesce con molta arguzia e intelligenza a indagare intorno a quest’ambiguità. Come? Usando una sana metodologia laica. Prima di tutto raccogliendo i documenti prodotti in questi anni da Slow Food e poi cercando di inquadrarli nella loro dimensione storica. Da dove vengono queste idee? Quali matrici le hanno generate? Esempio del metodo Simonetti. Si prenda la dichiarazione di Petrini-Padovani: “Slow Food è nato, sul finire degli anni ’80 da un gruppo di persone pervase da un disgusto snob di questa Italia consumista e televisiva e dal desiderio di arginare questa calata di barbari (…) dietro al fast food c’erano una nuova cultura e una nuova civiltà con un unico valore il profitto. Il piacere è del tutto incompatibile con la produttività, in quanto il tempo speso per sua ricerca viene sottratto alla produzione”. Così Petrini-Padovani e così, invece, commenta Simonetti: “in questo testo va notata soprattutto la ferma quanto immotivata convinzione che la produttività sarebbe del tutto incompatibile col piacere, il che ovviamente esclude sia ogni piacere rinvenibile nel lavoro sia il riconoscimento del fatto che ogni piacere - dalla visione di un film alla vista di una cattedrale - è frutto del lavoro, proprio e altrui”.
Forse non è superfluo rilevare che per Slow Food il termine produttività non ha un senso costante, né tanto meno quello tecnico che assume in economia (se così non fosse, d’altronde la tesi risulterebbe completamente assurda, visto che un guadagno in produttività significa appunto, tra l’altro, produrre un dato reddito in tempo minore, con conseguente aumento del tempo libero). Sovente significa semplicemente “produzione” altre volte “ossessione produttivistica”. Ancora, secondo Petrini “i fast food sono immorali, se ci riferiamo all’etimo latino da cui la parola morale deriva, da mores, i costumi, l’insieme delle abitudini e dei comportamenti di un popolo(…)”.
Simonetti di contro ribatte: “innanzitutto l’argomento dell’immoralità è contraddittorio: infatti se è immorale ciò che sovverte le consuetudini sociali consolidate, l’immoralità stessa viene ovviamente a cessare nel momento in cui le nuove consuetudini sono a loro volta consolidate (e a quale punto “immorali”sarebbero semmai le vecchie). Ma al di là della incoerenza, è più importante osservare che storicamente è del tutto errato attribuire alla tradizione popolare italiana abitudini che fino a tempi recentissimi sono state proprie solo di una ristretta cerchia di gente agiata: perché certo parlare di pasti abbondanti, di alimentazione sana e gustosa e di desinare in lieta compagnia, per i contadini dell’Italia non diremo preindustriale, ma anche solo anteriore alla seconda guerra mondiale, è nient’altro che una fantasia assai disinvolta”.
Aggiungerei solo una chiosa: il mondo muta, per fortuna. E non esistono prodotti e tradizioni immutabili. A noi piace credere nei prodotti tipici, come risultati di antichissime tradizioni. Ma sono mitologie. Di stampo creazioniste. E fatte proprie dalla Lega. Che ha inventato, lo sappiamo, un territorio mai è esistito solo per ragioni di marketing politico. La tristezza è che su molti aspetti la sinistra ha preparato questa tendenza, inventando una tradizione alimentare - e i mores conseguenti - che non esisteva. Andando sul pratico, il pomodoro Pachino è un prodotto tipico, da tempo immemorabile coltivato sulla costa siciliana da bravi contadini arcaici e incorrotti, oppure è un’ottima cultivar ottenuta da un incrocio ottenuto in Israele e arrivato in Sicilia negli anni ’80?
La seconda che ho detto. E il pomodoro Pachino ha sconvolto le tradizioni locali, i mores, ecc, o ha creato nuove opportunità e dunque dobbiamo ringraziare anche i genetisti che in laboratorio hanno realizzato quella cultivar? Non è che questo discorso sulle tradizioni alle fine riguarda pure i nostri migranti? Loro, arrivando in Italia, sconvolgono o non sconvolgono i mores? Tra l’altro sono i principali consumatori di fast food o di kebab. E ci credo, costano poco. Che si fa in questi casi? Si mettono barriere? Si grida al barbaro consumista e omologato? Insomma, l’ideologia di Slow Food non sembra diversa dalle tante che ci circondano, e che si basano tutte su un trucco: contestare la modernità e i prodotti da questa ottenuti e nello stesso tempo sfruttarne i vantaggi.
Un piccolo imbroglio concettuale che fa moda e tendenza, perché dichiarare costa poco. Cioè, per esempio, promuovere il consumo dei prodotti tipici italiani e contemporaneamente pretendere che questi vengano consumati solo localmente. La cipolla di Tropea solo a Tropea? E io che abito a Roma? Mi faccio in macchina centinaia di chilometri per mangiarla in loco? Se la montagna non va da Maometto… Luca Simonetti affronta tutti questi temi con uno sguardo sano (e tignoso) e un’adeguata strumentazione tecnica, economica, filosofica e giuridica. Insomma, sembra suggerirci, bisogna sapere essere all’altezza dei tempi, e senza una sana e consapevole cultura si mangia poco e male.
Data recensione: 26/04/2010
Testata Giornalistica: Limes
Autore: Antonio Pascale