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Nel documentato e argomentato profilo biografico che Gino Agnese dedica a Umberto Boccioni (Vita di Boccioni, Camunia, 1996; ma si veda anche Boccioni da vicino, Liguori, 2008), fa la sua comparsa Sibilla Aleramo, poetessa, scrittrice, protofemminista e “

Nel documentato e argomentato profilo biografico che Gino Agnese dedica a Umberto Boccioni (Vita di Boccioni, Camunia, 1996; ma si veda anche Boccioni da vicino, Liguori, 2008), fa la sua comparsa Sibilla Aleramo, poetessa, scrittrice, protofemminista e “sciupamaschi”. Vale la pena immaginarsi la scena. Luglio 1913, Milano, una serata afosa. Tavola per quattro, vino fresco a placar gli ardori. O ad eccitarli, visto che siedono a mensa tre uomini caldi di sangue e di spirito come Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Russolo e Umberto Boccioni, e una donna che non è loro da mano: Sibilla Aleramo, al secolo Rina Faccio.
Sibilla è ben nota negli ambienti artistici e letterari, visto che quattro anni prima ha pubblicato un libro abbondantemente autobiografico, Una donna (riproposto da Feltrinelli quattro anni fa) che ha fatto scandalo per la provocante franchezza con cui l’autrice ha narrato – ma qualcuno dice “ha smesso spudoratamente in piazza” – se stessa, con tanto di esperienze e scelte, conflitti e traumi, desideri e passioni. Tutto alla luce del sole, senza reticenze. Sibilla ha trentasette anni, e la sua vita non è stata facile: sposa, a diciassette anni, di un impiegato della fabbrica paterna, che due anni prima l’aveva violentata (quindi, si è trattato, sulla base della corrente morale borghese, di un “matrimonio riparatore”), ha perso un bambino, ne ha avuto un altro, è stata piegata e piagata per qualche anno dalle vicende della madre finita in manicomio, ha patito i tormenti della propria condizione di “schiava orientale”, e alla fine si è ribellata. Abbandonando il marito e il figlio (lo strazio della separazione dal bambino è raccontato in Una donna), ed andandosene dalla cittadina marchigiana in cui viveva (Porto Civitanova: ma lei era nata ad Alessandria il 14 agosto 1876), in fuga da tutto e con addosso tutto il peso delle sue responsabilità di donna libera. Sempre più emancipata e, ovviamente, sempre più “chiacchierata”. Come emerge anche dalla “biografia intellettuale” tracciata dalla studiosa tedesca Monika Antes, autrice di importanti saggi sulla letteratura italiana tra Otto e Novecento, e qui impegnata a rivisitare, con un taglio forse un po’ didattico, ma comunque fondato su documenti e chiaro nel percorso e nelle indicazioni di ricerca, un personaggio ancora – e fortemente – discusso (Amo dunque sono. Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in Italia, Polistampa, pp. 143, euro 15). Insomma, un’italiana del tumultuoso Novecento, tutta polemica urgenza innovativa, e, perché no?, voglia di protagonismo, con cui dobbiamo fare i conti.
Ma torniamo alla calda serata del 1913. Marinetti scherza con Sibilla («Sei nata nel 1876 come me, e anche tu ad Alessandria. Ma non quella d’Egitto»), mentre Boccioni la ascolta e la osserva. È una donna affascinante, un tipo “intrigante”, si direbbe oggi. Certo che di amanti ne ha avuti. A Roma, il poeta Giovanni Cena, scrittore e apostolo di redenzione umana e sociale, e un altro poeta, Guglielmo Felice Damiani. A Firenze, quell’“arrabbiato” ipercreativo e iperattivo di Giovanni Papini. E poi Cardarelli, e ancora un rapporto lesbo con una “fanciulla maschia”, e una storia con lo scrittore napoletano Vincenzo Gerace.
Come scrive Agnese, se quella malalingua di Prezzolini non la paragona a un “calamaio della posta”, a disposizione di tutti, poco ci manca. Ma quel “cuore vagabondo”, dicono altri, è pur sempre sofferente. E Sibilla è una donna generosa, che si batte per il riscatto di tutti gli oppressi: in primo luogo le “oppresse” e cioè le donne, obbligate ad essere “spose e madri esemplari” e a ingoiare veleno giorno dopo giorno, sottomesse a una società maschile, che le costringe spesso ad essere ipocrite e bugiarde, e additate al pubblico ludibrio se si azzardano a reagire. Perché questo è il quadro epocale, anche se, come nota la Antes, «risvegli e mutamenti sono nell’aria, e le donne iniziano a scoprire il proprio Io e ad esprimere pubblicamente opinioni e sentimenti ». Mica era facile. E non era davvero detto che i “maschietti” dell’avanguardia, pur geniali, sregolati e spericolati, volessero reggere l’urto di una donna, intelligente e libera, sì, ma anche, inevitabilmente, ingombrante. E, in qualche misura, per dirla con quel d’Annunzio che pure era instancabile amatore, “castratrice” degli slanci maschili. Già, perché l’uomo – e più che mai il Superuomo – non poteva “esaurirsi” nell’amore: aveva una missione da compiere.
E la donna? Ecco, se guardiamo alla vita di Sibilla Aleramo, che con Boccioni avrà un legame breve e intenso, costruito sul sesso, il sentimento e la reciproca ammirazione, ma ben presto messo in crisi dal timore, tutto maschile, di Umberto, di finire nelle spire di una “vampiressa”, sia pure intellettualmente raffinatissima (e, in effetti, lei, innamorata persa, ce la mette tutta, da “ex- dominata”, per “dominare” Boccioni che i legami li fugge come la peste); se guardiamo alla vita di Sibilla, quello che forse più colpisce è lo slancio generoso con cui la scrittrice mescola natura e cultura, all’insegna di un “sii quel che devi essere” nicciano. Ed evoliano, visto che il Barone Nero figura nel ricchissimo “carnet” della scrittrice, insieme ai già menzionati Boccioni, Papini ecc., nonché a Dino Campana, Giovanni Boine, Salvatore Quasimodo, la bisex Eleonora Duse, l’atleta olimpionico Tullio Bozza, per far solo qualche nome “eccellente”. Sibilla, certi “imperativi”, che parrebbero di taglio decisamente virilistico, li declina al femminile, e ci mette tutta se stessa per essere all’altezza della sfida, quasi si sentisse una Lou Andreas Salomé che, munita di frustino, aggioga al suo carro, a mo’ di cavalli da tiro, Paul Rée e Friedrich Nietzsche. Del resto, la sua voglia di non essere né strega né Madonna, ma pienamente donna, e donna intelligente, con un carattere e un “destino”, Sibilla l’aveva pagata a prezzo di un bel po’ di sofferenze e incomprensioni. Ma la grinta c’era, e da vendere. C’era un bagaglio di letture “rivoluzionarie” gustate e assimilate: Nietzsche, Ibsen (con la Nora di Casa di bambola che dice al marito: «Io devo essere affidata unicamente a me stessa, se voglio poter dar conto di me stessa e di chi m’è intorno. Perciò non posso restare più oltre presso di te. (…) Prima di tutto credo (…) ch’io sia un essere umano, come te, né più né meno, o, infine, voglio procurare di diventarlo. (…)
Ma io non posso più contentarmi di ciò che dice la maggioranza e di ciò che è scritto ne’ libri. Devo riflettere da me stessa su certe cose e rendermele pienamente chiare»), Whitman, Emerson, Zweig (che recensisce positivamente Una donna sulla rivista Neue Freie Press). Ci saranno conoscenze e frequentazioni importanti: Claudel, Peguy, Valéry, Gorki, Anna Kuliscioff, e, negli anni del secondo dopoguerra, Palmiro Togliatti, con cui la scrittrice, iscritta al Pci e collaboratrice dell’Unità, di Rinascita e di Noi donne, stringerà rapporti di profonda amicizia.
Opportunismo politico considerando che Sibilla, pur avendo sottoscritto nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce e pur avendo avuto un legame con Anteo Zaniboni – nel 1926 attentatore alla vita di Benito Mussolini – i suoi trascorsi fascisti non poteva nasconderli? Visto che aveva aderito alla Associazione femminile nazionale fascista delle artiste e al Sindacato degli autori e scrittori, aveva ottenuto dal Duce una pensione di mille lire al mese grazie all’intervento dell’accademico d’Italia Arturo Farinelli, e, forte della sua liason con una delle “anime” di Primato, Enrico Emanuelli, figurava tra le firme della rivista bottaiana?
Diremmo di no. Sibilla, pur nella volubilità delle sue passioni, credeva in quel che predicava e in quel che faceva. Credeva nella sua scrittura (l’ampia bibliografia è esplorata dalla Antes con competenza e acribia), credeva nei suoi amori, anche quando da essi, magari a causa dell’impatto con l’“eccezione”, scaturivano avversione e antagonismo, più o meno letterariamente trasfigurati (è quanto avviene con Julius Evola, il Bruno Tellegra di Amo dunque sono, raffigurato come un «essere disumano, gelido architetto di teorie funambolesche, vanitoso, vizioso, perverso». E credeva nei “manifesti” rivoluzionari che, da un libro all’altro, lanciò. A partire da Una donna, dove si legge: «Bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna». Fieri propositi d’assalto al cielo, finiti nella polvere – insanguinata – delle ideologie “totali” novecentesche, con i loro proclami eversivi, i loro appelli alla creazione di uomini (e donne) nuovi e i loro esiti, in vari modo, oppressivi? O non sarà che la rivoluzione libertaria è ancora tutta da fare, e che questa è la grande sfida che il Novecento, tutt’altro che “secolo breve”, ci ha lasciato come “testimone”? Guardando l’esempio Sibilla è molto più probabile la seconda ipotesi, perché la scrittrice rappresenta, un po’ come tutti gli avanguardisti, una donna del nostro oggi che ancora riesce a dire le cose che ci servono. E che continueranno a servire...
Data recensione: 07/03/2010
Testata Giornalistica: Secolo d’Italia
Autore: Mario Bernardi Guardi