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Chi era Musciatto Franzesi? La storia non ci dice molto di lui, limitandosi a presentarcelo come un losco e intrigante, spregiudicato e spietato affarista fiorentino, che tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento fece

Chi era Musciatto Franzesi? La storia non ci dice molto di lui, limitandosi a presentarcelo come un losco e intrigante, spregiudicato e spietato affarista fiorentino, che tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento fece fortuna in Francia, diventando addirittura consigliere di Filippo il Bello. Un furbo matricolato, il nostro Musciatto che, grazie ai soldi elargiti a profusione, nel 1301, fu al seguito di Carlo di Valois, durante la discesa in Toscana sollecitata da Bonifacio VIII per favorire la fazione dei guelfi neri. Già, gli acerrimi nemici di Dante, quelli che lo avrebbero bandito per sempre da Firenze, condannandolo alle asprezze dell’esilio, come sa bene chiunque vada a rovistare tra le proprie memorie liceali. Ora, se cercate tra quelle memorie, troverete un preciso riferimento a Musciatto nella prima novella del «Decamerone»: Ser Ciappelletto. Dove si legge, per l’appunto, che Musciatto Franzesi ,dovendo riscuotere a Parigi dei crediti e non potendo farlo di persona, per i suoi impegni alla corte del Valois, si affidò a un notaio di Prato, Ser Ciappelletto, un vero e proprio campione di ogni nequizia: bestemmiatore, bugiardo, sodomita, ladro e assassino. Nonché esattore coi fiocchi. Vi ricorderete che questo pessimo soggetto trovandosi in punto di morte, si diverte a ingannare il fraticello confessore presentandosi come un’anima pia e timorata di Dio, e se ne va all’altro mondo circonfuso da un’aura di santità. Capita che le faccende umane vadano in tal empio modo e Giovanni Boccaccio, che pure pronuncia un suo sermoncino «morale», di fronte alla malizia «artistica» di Ciappelletto, peccatore smodato ma geniale, prova una sorta di ammirazione. Quella che sempre suscita la variopinta ricchezza dell’umanità, la sublime «imperfezione che ci abita e ci possiede, e noi abitiamo in essa e la possediamo: è la nostra eredità, la porzione che ci spetta, connaturata a noi come la voglia di superarla e la disperazione che accompagna la coscienza di non poterlo fare». Così scrive Franco Cardini nella prefazione a un romanzo di Riccardo Nencini che sta ottenendo un grande successo («L’imperfetto assoluto», Mauro Pagliai Editore, pp. 440, euro 19), grazie a un Dante «rivisitato» e a un Musciatto reale e immaginario che col Divino Poeta mescola il destino. In un «paesaggio» dove bene e male si confondono, tra grovigli di angeli e demoni, superbe bellezze e oscene abiezioni, intereressi e ideali, bassa cucina politica e volontà di potenza e di splendore: la Firenze del primo Trecento. Qui ritorna Musciatto, al seguito di Carlo di Valois; da qui, tra poco, Dante sarà costretto a partire per sempre. E il Poeta, prossimo e futuro Giudice, è, come scrive Cardini, l’«alter ego» e la «controfaccia» del «Prometeo corrotto e corruttore» Musciatto, avido di altre ricchezze ed altro potere nella sua città. Firenze nel Trecento: un immenso cantiere. Riccardo Nencini, Presidente del Consiglio della Regione Toscana e studioso attento e appassionato di storia , ricostruisce, ritrova il passato con perizia di cercatore, capace addirittura di sentire il respiro di una comunità operosa ma discorde. Dove ferve il gran lavorìo della crescita, del cambiamento. Dove molto si conquista, ma altrettanto si smarrisce. «Sembrava che ciò che fosse stato costruito solo un trentennio prima avesse perduto ogni dignità. Lavori giganteschi in Santa Reparata, accanto al Battistero, e nei pressi del porto d’Arno; nuovi quartieri dove i campi e le vigne inondavano di profumi le botteghe, oltre San Pancrazio e al di là del fiume; fossati a completamento delle mura di difesa, porte sormontate da statue e da leoni, strade, ponti, sobborghi in legno e pietra forte. Rumorosi, i vicoli si gettavano da ogni dove sul mercato, rompendo la simmetria imposta dalle geometrie romane, l’antico reticolo di strade- da levante a ponente, da settentrione a meridione- che i bottegai avevano divelto per far posto a banchi e magazzini. I differenti odori segnalavano l’esatta ubicazione dei mestieri. Ogni chiasso era immerso nel suo sentore, tutti sommersi dai miasmi emanati dagli escrementi del bestiame e delle officine dove si lavoravano le pelli». Firenze, tra profumi e fetori. Prende forma «la città delle arti e delle corporazioni, peccatrice a sufficienza per doversi poi pentire con opere di bene e generosi lasciti a conventi e monasteri». Firenze dove la superbia, l’invidia, la volontà di guadagni e di potere si combinano con il talento degli artefici e con l’intraprendenza dei mercanti «in un ordine sublime, equilibrio perfetto tra le terrene aspirazioni e il bello plasmato in omaggio alla gloria dell’Onnipotente». Una città esemplare: «florida, magnifica, divisa». Qui l’«imperfetto assoluto» vive la sua dismisura. Qui Bonifacio VIII e Carlo di Valois vengono per imporre il loro dominio a una classe politica incapace di difendere la propria libertà. «La gente nova e i facili guadagni», duramente denunciati da Dante, hanno fatto strame del senso civico e solo attendono di consegnarsi al nuovo padrone. E ai servi-padroni come Musciatto Franzesi. La sua storia si intreccerà a quella di Dante, uomo politico d’ardente sentire, che venture e sventure avvelenano e poi riscattano. Dante vorrebbe tornare, ma non tornerà. Tre anni di vani tentativi: e lui, che non è più un cittadino stimato e non è ancora il Sommo Poeta, spera e dispera, e si affanna in nome dalla politica. È ancora uomo di parte ma cerca oscuramente la patria, e presto abbandonerà la malvagia, scellerata compagnia degli altri esuli. Che cosa mette sulla carta questo Dante pallido, teso, angustiato? Nella «finzione» di Nencini - affidata a una rete di «manoscritti» fortunosamente ritrovati - l’Alighieri commenta opere e giorni con dei sonetti di notevole fattura. Ne è autore, in realtà, Federico Berlincioni, un poeta di ventidue anni, che dell’Alighieri sa essere sodale, affine e complice in versi intensi e «petrosi». Eccone una prova: «Null’altro nella fuga che paura/ da Firenze infino a qui ebbi compagna,/ che precede me dinanzi e inganna/ il dritto corso d’ogni via sicura,/ null’altro m’attendeva, né premura/ ovunque andassi, lungo la campagna,/ nei borghi, e dove il mar la terra bagna,/ sì forte che ridir non può scrittura./ Lontano Amor, lontana è signoria,/ rinnova la campana la condanna/ ad ogni sole che in silenzio s’alza./ Solitaria è la strada che m’affanna,/ che fu ai mercanti e ai pellegrini via,/ ed ora il piede d’esule la calca».
Data recensione: 27/07/2009
Testata Giornalistica: Il Tempo
Autore: Mario Bernardi Guardi