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15.30, martedì 11 novembre 2008. Chiesa di San Gervasio a Firenze. Un pomeriggio piovoso, restio. Un interno freddo, un po’ oppressivo. Si scuotono gli ombrelli, si entra alla spicciolata. A poco a poco la chiesa si

15.30, martedì 11 novembre 2008. Chiesa di San Gervasio a Firenze. Un pomeriggio piovoso, restio. Un interno freddo, un po’ oppressivo. Si scuotono gli ombrelli, si entra alla spicciolata. A poco a poco la chiesa si riempie. Il feretro è ricoperto di fiori. Quando il sacerdote si volge, tutti si siedono. Parla del defunto, l’impressione è che non lo conosca granché. Espressioni d’occasione, una voce che non trova il tono adeguato all’evento. Interviene la figlia Federica, poi la nipotina che si rivolge idealmente al suo nonno. Un monologo sul filo del sentimento domestico. E viene il turno delle compagne di scuola, le sue amiche undicenni: ognuna si rivolge a Valeria, la consola della perdita del nonno. Hanno tuniche candide, una vena di nitida commozione nelle candide voci. Forse sono troppe perché una signora si accosta interdetta alla persona che si trova accanto a lei, a bassa voce chiede se sia il funerale del nonno di Valeria. Non doveva esserci quello del professor Giorgio Luti, emerito di letteratura italiana all’Università di Firenze dove è stato anche direttore d’istituto e prorettore? Figura pubblica e figura privata hanno dimensioni diverse, non si conciliano. Allontanare la prima ha un po’ il senso di una riappropriazione, e anche di un risarcimento per la famiglia. Da una parte, sopra le teste spunta un gonfalone: porta l’insegna del comune di Greve. Una gran corona di fiori è stata inviata dalla municipalità di Pistoia. La medesima signora si rivolge ancora al vicino: ma il comune di Firenze? chiede. E l’università? E tutti e due si guardano intorno. Rettore e preside non si vedono. Si riconoscono invece varie colleghe e colleghi (anche di differenti discipline), e sodali di Giorgio Luti, insieme ad altri amici storici. Fra loro, due accademici dei Lincei. E sono presenti anche tre o quattro fra scrittrici e scrittori, un paio di poeti: hanno frequentato Luti, è stato sempre prodigo di attenzione e consiglio al farsi creativo. C’è l’editore di Letteratura e rivoluzione, pubblicazione che fortunatamente contraddiceva il pronostico (in Premessa, Luti annunciava: «probabilmente questo è il mio ultimo libro», era il 2002). Laureata con Luti, c’è la direttrice del Gabinetto scientifico letterario fondato nel 1819 da un mercante ginevrino con l’intento di farne un centro di intraprendenti e ben vive intelligenze, e non di superstiti fossili. Fra i suoi direttori ha contato Montale e Bonsanti, tra il ’91 e il ’94 Luti ne ha retto con prestigio e larghe vedute la presidenza. La signora non vede il presidente di adesso, c’è invece il suo immediato predecessore, che ha tirato fuori l’istituzione dalle secche di gestioni avventurose. Scorge, isolati, alcuni dei passati assessori alla cultura di Palazzo Vecchio, uno è quello della mostra dedicata ai Medici (ha fatto epoca, una vita fa); un altro, anche lui un laureato di Luti. L’attuale manca. Si intravede anche il vicesindaco di una giunta di tempi passati. L’omologo in carica è assente, e non c’è nemmeno il sindaco che nel 2006 gli conferì il Fiorino d’Oro per «la sua opera insigne di critico e di docente» che ha investigato «la vicenda culturale italiana otto- novecentesca». Pressoché al completo ci sono gli epigoni della scuola del professor Giorgio Luti, alcuni venuti da fuori. Ed è finalmente uno di questi fedelissimi che ha preso la parola. Marino Biondi. Per diciotto anni collaboratore stretto del maestro e oggi docente di storia e storiografi a della critica nell’ateneo fiorentino. Chi era lì, insomma, ci stava a titolo personale (gonfalone chiantigiano e corona pistoiese a parte: il primo in onore degli anni alla guida del Premio Chianti, la seconda per il lascito della biblioteca che altre istituzioni a Firenze non hanno accolto). No, nessuna adesione pubblica da parte degli “alti uffi ci” alla estrema celebrazione terrena di colui che è stato una figura centrale della società letteraria. Quando gli chiesero cosa ne pensasse dei giurati di Stoccolma che non gli davano il Nobel, Borges rispose: sono così vecchi che ritengono di avermelo già dato. Con un non dissimile spirito, Luti in questa circostanza direbbe: beh, non sono venuti perché convinti che io fossi già morto da un pezzo. Gli ultimi anni non sono stati munifici con lui. Il distacco dall’insegnamento, la perdita dell’amata Dedi, la vista che gli si oscurava quasi da un giorno all’altro hanno spento il suo straordinario entusiasmo per l’esistenza (l’essenziale è la contingenza, esistere è esserci). A poco a poco ha abbandonato la presa quella che senza alcun dubbio è stata una delle più perspicaci menti critiche della civiltà intellettuale dei nostri giorni. Si è ritirato lo studioso che ha fornito uno statuto scientifico alla letteratura contemporanea (da noi, diversamente che in altri paesi, la cenerentola) e istituito una scuola che ha attirato, formato, dato un metodo (e fatto amare scrittori e poeti da Svevo a Tozzi, da Ungaretti a Sbarbaro, da Pratolini a Betocchi e così via) a generazioni di giovani oggi nei licei, nelle università, nelle biblioteche, negli archivi, nelle amministrazioni. In Italia e fuori. Si è taciuto l’intellettuale militante il quale non aveva mai smesso di riaffermare la grande tradizione cosmopolita di Firenze, l’animosità del suo carattere, che dopo periodi di torpore riattiva inquietudini propulsive che riproiettano questa città sulla scena della grande cultura, come è avvenuto anche all’inizio del novecento e come ora tarda a riprodursi. La lezione di Luti, ha scritto una italianista che con lui ha lavorato per molti anni all’Istituto di lingue neolatine, è stata quella di uno straordinario contemporaneista la cui grandezza è data dalla originalità e acutezza di prospettive con cui ha indagato i meccanismi del tempo presente. Non è un caso che per le sue Cronache letterarie fra le due guerre uscite con Laterza nel ’66, Eugenio Montale gli abbia dato atto sul “Corriere della Sera” di avere metamorfosato la cronaca in storia, e in storia civile ancor più che letteraria. È certo che Luti ha scompaginato le carte dell’ingessatissimo canone letterario, scomposto consacrati pedigree, configurato sentieri altri di lettura, in tale modo rivitalizzando l’approccio al testo e agli autori. È stato sì il maestro ma in pari tempo anche «l’uomo in cui si è identifi cata la vita di studio e di lavoro dei suoi allievi», come ha detto nella toccante evocazione in chiesa Marino Biondi (poi pubblicata su “la Repubblica” il giorno seguente). Accanto all’accademico e letterato di fama, e al promotore o ospite privilegiato di convegni, come ha testimoniato Marino Biondi che ha parlato per tutti gli altri, accompagnatore fisso del suo maestro su e giù per l’Italia; accanto al presidente o membro di premi letterari di rango (fra cui il Viareggio); accanto insomma all’uomo pubblico, persisteva per un imprescindibile sinergismo quello privato. Della fedeltà alla vita. Dell’amore alla vita. Della curiosità per la vita. Il quale magari quando si trovava a Parigi per discutere tesi di dottorato alla Sorbona pregustava il sauté d’agneau per lo spuntino al Bar du Marché o l’homard persillé per la cena alla Brasserie Bofi nger, accompagnati naturalmente da una bottiglia di Muscadet. Si concedeva l’acquisto di una cravatta in Place des Victoires, la visita al Musée d’Orsay, la capatina in Rue du Dragon alla casa di Victor Hugo. Conversatore brillante e gran fumatore (sigarette, toscani, pipa), non finiva una cena senza un buon single malt (famosa la domanda ammiccante, quando era invitato: quando arrivano i superalcolici?) e senza una divertita battuta. A qualcuno più intrinseco, chissà, non sarà sfuggito come suggerisce Biondi quel filo di aegritudo animi, di mélancolie, di Trübsinn, di dull-eyed melancholy (per citare Shakespeare) che spesso affligge gli uomini di pensiero. Nel rapporto con gli altri, tale predisposizione probabilmente ha contribuito a far sì che il lato umano non potesse non toccarlo, e sempre con sollecitudine. Era pronto a un incoraggiamento, a una mediazione, a un intervento perfino non estraneo alla sfera strettamente privata. Un autorevole cattedratico di una disciplina scientifica, scienziato e umanista, una volta osservò (senza alcuna malizia): è singolare, dei suoi allievi Luti si preoccupa quasi più della salute che della carriera. Era paterno, non paternalistico. Coglieva l’aspetto ludico della vita. Aveva un fisico saldo, un sorriso pronto («poteva divenire terribile solo davanti alla slealtà», ha attestato Biondi). Gli piaceva la compagnia, era l’animatore di una cerchia di amici intellettuali riuniti per discutere la lettura di un libro che lui suggeriva, che fosse un classico oppure di spinosa attualità. All’uscita dalla chiesa, il cielo si era ormai oscurato e l’acquerugiola fatta più insistente. Qualcuno dava passaggi in auto ad altri appiedati. In una macchina si sono ritrovati tutti insieme quattro docenti di letteratura. La circostanza e la mestizia del vespro hanno indotto uno di loro a osservare con malcelato sospiro di autocommiserazione: di noi critici, che cosa resterà?... al massimo, per una ventina d’anni il nome in una nota a pié di pagina. Di Giorgio Luti resta un seguito di allievi che gli hanno fatto onore e lo hanno amato. In generazioni di ragazze e ragazzi che da lui hanno appreso il sapere nella affollatissima aula dove teneva lezione (anche cinquecento presenze alla volta), la grazia di gustare internamente la letteratura come fosse un racconto e di intenderla quale una realtà che non diviene signifi cativa fino a quando non è stata trasformata in arte. Nella nostalgia dei tantissimi amici, quella sua smorfia di disappunto per l’ultima sigaretta che non ha fatto in tempi ad accendere. Perché in qualsiasi momento venga, la morte è comunque inattesa e precoce.
Data recensione: 01/12/2008
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Mario Graziano Parri