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Chissà se il povero cormorano incatramato della Guerra del Golfo condivideva le idee di Roland Barthes sulla fotografia? E se avrà avuto modo d’interrogarsi sull’immediato senso di verità che essa trasmette mentre

Chissà se il povero cormorano incatramato della Guerra del Golfo condivideva le idee di Roland Barthes sulla fotografia? E se avrà avuto modo d’interrogarsi sull’immediato senso di verità che essa trasmette mentre gli rovesciavano addosso una tanica di petrolio dopo averlo prelevato dal suo tranquillo zoo? Di sicuro le implicazioni del potere della fotografia non sfuggivano ai reporter della Cnn che avevano calcolato perfettamente la capacità del loro novello attore di far credere all’opinione pubblica quale disastro ambientale Saddam stesse perpetrando in Kuwait. Lo “stupro delle folle” a mezzo stampa non era però al centro dell’interesse del semiologo francese quando si occupava della fotografia. Tuttavia Barthes, cercando di scoprirne la natura più profonda, aveva perfettamente compreso che in essa verità e realtà si confondono, giocando con la nostra convinzione che quanto è fotografato “è esistito” di fronte all’obiettivo. E ciò che è esistito possiede anche una sua verità, che però, come spesso è accaduto, non è stata immune da manipolazioni. La manipolazione dell’immagine non è che l’ultima frontiera tecnologica dell’adulterazione della verità, in particolare in ambito politico e bellico dove è sempre stata una componente essenziale, «perché una battaglia è davvero vinta quando il nemico si è convinto di averla persa», come afferma Gabriele Parenti nell’introduzione del suo libro Napoleone in sala stampa- Strategie d’immagine nella storia (Mauro Pagliai Editore, 172 pagine, 10 euro). In questo volume l’autore ha raccolto diverse case histories di operazioni di comunicazione tese a creare un effetto distorcente della realtà ad usum delphini. I suoi arteficio vittime sono i nomi che hanno segnato la storia occidentale, dal mito di Prete Gianni a Napoleone, da Mata Hari ad Alfred Dreyfus e molti altri ancora fino a giungere agli anni Sessanta con Che Guevara e i fratelli Kennedy. L’autore entra di traverso in ciascuna vicenda scivolando dietro ogni cliché per svelarne la natura artificiosa, frutto di calcolate macchinazioni ordite per l’inganno del pubblico, per suscitarne un effetto emozionale di simpatia o antipatia. Si scopre così che il fascino di molti di questi personaggi viveva di impalcature, di costruzioni, di quinte che occupano la scena per creare un’immagine e nasconderne un’altra. In questo lavoro l’autore si porta vicino ai personaggi, sotto il proscenio della storia, per capire se indossano una maschera o se invece mostrano la loro faccia autentica, seppure truccata per marcarne il sorriso o il cipiglio. Se il lato oscuro esiste realmente oppure è un cono d’ombra creato ad arte da un oscuro regista per renderli più sinistri all’occhio del pubblico. Tuttavia sono personaggi raccontati in bilico, su un crinale, in equilibrio fra il successo e il fallimento, costretti a funambolismi tattici, destinati per questo ad essere raccontati secondo una doppia chiave di lettura. Sotto la lente di Parenti molti personaggi recuperano le loro debolezze e incertezze, sottratti a quell’aura di perfezione nella quale leggenda e agiografia li hanno collocati. La denudazione dei paramenti del mito risulta particolarmente sorprendente nel caso di Napoleone, ritratto in un’insolita goffaggine nel momento del colpo di mano nel quale prese il potere. Per rovesciare il Direttorio e costituire un organo più snello costituito da tre consoli, un gruppo di congiurati, fra cui autorevoli membri del governo come Sieyès e Talleyrand, puntò sui due fratelli Bonaparte per riuscire nell’impresa. Il più giovane dei due, Luciano, fu eletto presidente di uno dei due rami del parlamento, il Consiglio dei Cinquecento, mentre Napoleone fu nominato Comandante della guarnigione di Parigi per assicurare l’ordine minacciato da un fantomatico complotto, creato ad arte per far precipitare gli eventi. Contemporaneamente, sotto la regia di Sieyès, i membri più influenti del Direttorio si dimisero per delegittimare il governo. Per costituire il nuovo organo consolare e consegnargli il potere mancava soltanto un ultimo passo: creare il necessario clima d’allarme, facendo sfilare la guarnigione per le vie di Parigi, e indurre di conseguenza il Consiglio degli Anziani ad affidargli la costituzione di un governo forte. Ma la battaglia che si apprestava a combattere si svolgeva su un terreno infido per lui, quello dell’eloquenza parlamentare. L’oratoria secca e vibrante che suscitava forti emozioni nei soldati non ebbe effetto sui deputati che usavano un linguaggio zeppo di ideologismi e una retorica classicheggiante. Il Consiglio degli Anziani accolse con freddezza l’appello ad un governo forte e molti pretesero spiegazioni sull’inesistente complotto anarchico. Bonaparte non apparve convincente, s’innervosì, perse il filo del discorso, s’impantanò in espressioni vaghe sulla congiura, sull’onore della Francia. Alla fine, quasi fuggì dalla sala, ma non desisté. Anzi, con il medesimo intento si recò al all’Orangerie, dove erano riuniti i Cinquecento, l’assemblea più autorevole ma a lui più ostile per la presenza di numerosi giacobini. Anche qui le cose non andarono diversamente da prima, trovandosi addirittura in una situazione di maggiore difficoltà. Il suo discorso fu costantemente interrotto dagli oppositori e dai cori ostili nei suoi confronti. Molti chiesero di votare una risoluzione per dichiararlo “fuori legge”, il che equivaleva a riconoscerlo colpevole di cospirazione contro lo stato e comportava una condanna a morte o all’esilio. Alcuni deputati lo strattonarono, qualcuno lo colpì perfino al volto. Il generale che aveva attraversato il ponte di Arcole sotto il fuoco nemico, venne colto dal panico. Fuggì dalla sala, raggiunse Sieyès, che in una sala d’attesa stava attizzando il fuoco di un camino, e gridò «Vogliono mettermi fuori legge». L’anziano statista, imperturbabile, senza nemmeno voltarsi, rispose: «E voi metteteli fuori dai piedi». Ci pensò il fratello di Napoleone, Luciano, quasi avesse sentito le parole di Sieyès, a condurre in porto il colpo di mano. Con la sua autorità di Presidente si rifiutò di mettere ai voti la mozione che avrebbe significato la fine di Napoleone. Poi, dato che il tumulto cresceva, si tolse la toga, emblema della sua carica, e dichiarò sospesa la seduta per l’impossibilità di mantenere l’ordine. Quindi uscì nel cortile, gridò alla guarnigione che un gruppo di facinorosi condizionava l’Assemblea per impossessarsi del potere e uccidere il loro generale. Bisognava ad ogni costo ristabilire l’ordine. Di fronte al presidente dell’Assemblea anche le Guardie del Parlamento, notoriamente fedeli alle istituzioni, non esitarono. Murat ebbe via libera e ordinò ai suoi granatieri «buttate fuori questa marmaglia». Di fronte alle baionette i deputati fuggirono nel parco. Alcune ore dopo, Luciano ne radunò qualche decina a cui fece votare l’istituzione del Consolato e la nomina di Napoleone a Primo Console. Il progetto di Sieyès venne, dunque, capovolto. Il potere esecutivo fu attribuito interamente a Bonaparte; gli altri due Consoli ebbero solo un potere consultivo. Non più un organo collettivo ma una dittatura appena mascherata. Ma la circostanza aveva messo a nudo, con incredibile evidenza, la rigidità dell’abile stratega militare a guadare le acque torbide della politica domestica, nelle quali il futuro «Imperatore dei francesi» era rimasto impantanato come il più inetto dei cospiratori.
Data recensione: 03/03/2009
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti