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Caro Pier Venier, l’incontro, cui mi hai con affetto sospinto, con Giovanni Fattori all’Accademia di Belle Arti dove sono ora esposte (nel centenario della morte) alcune sue opere, mi ha procurato due diverse emozioni

Su Giovanni Fattori all’Accademia e altre divagazioni intorno a certe espressioni d’arte sottaciute, curiose, sconcertanti. La benda del principe, l’autopsia del dottor Deijmans. Lettera a Pier Venier di Giorgio Casal Caro Pier Venier, l’incontro, cui mi hai con affetto sospinto, con Giovanni Fattori all’Accademia di Belle Arti dove sono ora esposte (nel centenario della morte) alcune sue opere, mi ha procurato due diverse emozioni. Una, sul piano estetico vero e proprio e l’altra, su un mio piano culturale più peculiare. Sul piano estetico, è stata la grande Carica di Cavalleria a coinvolgermi appieno, più ancora delle belle e famose “elegie” maremmane (così carducciane) col mare in fondo e, vicina, una spiaggia nuda e deserta, ove stanno un cavallo solitario e come sperduto nel vuoto attorno a lui, e due maestosi buoi al carro. Di fronte alla furia irresistibile della Carica mi è corso il pensiero sui futuri quadri (“dinamismo e simultaneità”) che ci daranno nel Novecento Giacomo Balla o Umberto Boccioni. All’estremo destro del grande quadro (piacque anche al Re Umberto I che lo acquistò per il Quirinale) compaiono esili e alti alberi appena accennati, che mi hanno riportato alla mente le vibranti, pur se immote, lance verticali della Resa di Breda di Velázquez. La grande corsa della Carica mi ha fatto pensare alla turbinosa presa di Palermo da parte dei Garibaldini nel Gattopardo di Visconti (che sappiamo avere attinto al Fattori per la battaglia nel film Senso, e ne parla anche un allievo di Ragghianti, Raffaele Monti, in suoi pregevoli studi su Fattori e Visconti), e vorrei anche richiamare l’attenzione al disegno del “soldato a cavallo con l’occhio bendato” (n. 44 del catalogo edito a Firenze da Mauro Pagliai, I luoghi di Giovanni Fattori nell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Passato e presente a cura di Giuliana Videtta e Anna Gallo Martucci: peccato che anche qui manchi un indice dei nomi, lacuna in comune con altri fecondi cataloghi ben forniti di introduzioni, scritti critici, apparati) che ricompare con il bendato principe Tancredi dopo la battaglia di Palermo, nel film viscontiano. Su di un piano più ristretto, ma prossimo a un mio interesse peculiare, mi ha colpito l’attenzione, direi “tecnica”, del Fattori alla corporeità come egli la vede, nuda e cruda. Nel grande quadro con Maria Stuarda alla Battaglia di Crookstone (n. 28 del catalogo) ci si parano davanti i piedi del morto nell’armatura (forse l’amante della regina), che è al suolo, riverso. Dei piedi, uno è disteso, allungato; l’altro appare come rattratto verso il corpo. E ciò è proprio quello che avviene spesso in un cadavere. In un altro quadro, di piccole dimensioni tuttavia ricco di suggestioni, quello della Modella detta “Nordica” (n. 7 del catalogo), il Fattori mette sotto gli occhi di chi guarda un davvero inaspettato primo piano dominato dalle nude piante dei piedi della modella, callosi e sporchi come se avessero camminato nel fango: nella loro esibita rozzezza, appaiono in pieno contrasto con la venatura verdastra, morbida ed elegante, che percorre la schiena nuda (e la riprende Giuseppe Mazzei nel suo quadro con la medesima modella [n. 106 del catalogo]). Altri piedi mi sono allora ricomparsi alla mente: subito, quelli dalle dita arrossate per i ruvidi zoccoli della modella appena arrivata snella allo studio per la Danae del Correggio (oggi alla Borghese di Roma) e quelli di un’altra modella, questa opulenta, nel nudo del Guercino (Venere e Marte, oggi nel Cheshire); e, ancora del Guercino, i piedi, sporchi e callosi, del suo Sansone arrestato dai Filistei (al Metropolitan di New York) e quelli del Figliol prodigo (alla Galleria Sabauda di Torino): sono quelle mani e quei piedi che avrebbero fatto dire, forse a Guido Reni, «quelle manacce, quei piedacci, pur che li piacci» che il Malvasia cita a proposito del pittore di Cento. Oppure quelli, ben callosi, del giovane nella scultura di Arturo Martini ove è raffigurato Tobiolo appena uscito dall’acqua con in mano il pesce salvifico. E poi ancora quelli famosi, grevi di grigia polvere, del pellegrino in primo piano nella Madonna del Rosario del Caravaggio (oggi a Vienna) o, sempre del Caravaggio, il piede sensualmente lercio, con le unghie sporche, del San Giovannino nel bosco (oggi a Londra). E quelli, infarciti di terra, del contadino di Rembrandt sottoposto ad autopsia dal Dr. Deijmans (ad Amsterdam, però non nel museo principale). Fino alle unghie scheggiate dei grandi piedi del masaccesco San Giovanni, al Carmine, nella scena del Pagamento del tributo (che Baldini e Casazza pongono in evidenza). Con questi pensieri per la testa mi sono tornate in mente altre e celebri opere d’arte: fra queste, mi si sono ripresentate le rozze e tozze dita del garzone di bottega che sorregge il libro nel Santo Stefano di Giotto al Museo Horne. Immagini poco avvertite e volentieri attenuate nella loro crudezza, come nel Cristo morto di Holbein il Giovane, a Basilea, dai piedi fuligginosi che ben poco risaltano nell’edizione a stampa. Un secolare “understatement” di pittori e di editori, che però esploderà nel XX secolo per opera di Pablo Picasso e di Francis Bacon, per non dire altro. E quindi grazie e abbimi, cordialmente tuo, Giorgio Casal
Firenze, 23 settembre 2008
Data recensione: 30/10/2008
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Giorgio Casal