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Maestri toscani dell’Ottocento e del Novecento. A Renato Natali, Ulvi Liegi, Gino Romiti e Giovanni Bartolena è dedicata la collana d’arte che si propone di colmare una lacuna bibliografica ormai annosa e restituire ad un pubblico

Renato Natali, Ulvi Liegi, Giovanni Bartolena e Gino Romiti: le opere e la vita 
Protagonisti tra Ottocento e Novecento eppure trascurati dai critici. Li accomuna l’originalità e la città d’origine: LivornoMaestri toscani dell’Ottocento e del Novecento. A Renato Natali, Ulvi Liegi, Gino Romiti e Giovanni Bartolena è dedicata la collana d’arte che si propone di colmare una lacuna bibliografica ormai annosa e restituire ad un pubblico più ampio questi quattro grandi artisti livornesi finora esplorati solo marginalmente nei principali repertori e manuali di storia dell’arte.  La collana (Mauro Pagliai editore per il Tirreno) prende il via con il volume dedicato a Renato Natali , forse il più amato e popolare tra gli artisti livornesi. Seppure protagonista di studi anche recentissimi, Natali sfugge ancora al grande pubblico e si stenta a coglierne il ruolo di emancipato innovatore delle vicende artistiche toscane, ma più generalmente, italiane.  Natali, al pari degli altri tre artisti scelti nell’ambito toscano, non rappresenta soltanto un protagonista dell’arte livornese, ma un artista fortemente partecipe delle inquietudini della sua epoca, aggiornato sulle tendenze d’avanguardia, e soprattutto stimato dall’intellighenzia critica nazionale.  Dario Matteoni, autore del primo volume, sottolinea come Natali manifesti nella sua prima produzione l’interesse per il divisionismo di Vittore Grubicy de Dragon, la diretta conoscenza della grafica “art nouveau” di Leonetto Cappiello, la predilezione per la maniera di Ignacio Zuloaga e di Hermen Anglada, il costante aggiornamento avviato, tra il 1913 e il 1914, durante la breve permanenza a Parigi, sull’esperienza delle avanguardie francesi.  Il filo critico dipanato dall’autore ripercorre anche l’estremo itinerario pittorico di Natali, quello più problematico degli ultimi decenni, quando l’artista divaga verso tipologie ed ambienti di un campionario ormai sconfinato.  Il volume dedicato da Stefano Fugazza a Ulvi Liegi fra tradizione toscana, impressionismo, aperture fauves, presenta elementi di novità scientifica, rispetto a una figura di prim’ordine dell’arte toscana tra Ottocento e Novecento.  L’itinerario critico consente di rileggere come in Ulvi Liegi, negli anni Novanta, sempre più approssimandosi la fine del secolo, il colore assumesse inflessioni meno naturalistiche e più accese, e come, sin dal primo Novecento, prendesse avvio un corso decisamente nuovo nella sua pittura, che si allontana da prospettive realistiche.  Grazie al volume curato da Fugazza, è possibile verificare la straordinaria capacità di Ulvi Liegi di ammiccare al fauvisme, in coincidenza con la partecipazione alla prima Biennale romana del 1921 e alla Biennale di Venezia del 1928, significativa quest’ultima proprio per la presenza di opere del gruppo fauve.   Giovanni Bartolena , forse il meno indagato in sede critica, è affrontato da Nicoletta Colombo, che evidenzia la sua vocazione di artista che si pone nel solco della tradizione toscana della “macchia”, rinnovata secondo il canone di una personale interpretazione del novecentismo.  Dalla nascita livornese e a partire dalla frequentazione a Firenze dei corsi di Giovanni Fattori, il percorso esistenziale ed artistico di Bartolena è affascinante quanto anomalo, si pensi ai gravi dissesti economici, in seguito ai quali la sua vita subisce una svolta, che lo induce ad un ostinato isolamento e ad un atteggiamento anarcoide, segnato da episodi strani e maniacali.  Poi la svolta: il mercante di tessuti Luciano Cassuto lo vincola con un contratto e gli organizza una mostra personale a Milano tra il 1926 e il 1927, evento che segna il primo, importante riconoscimento di pubblico e critica, giuntogli all’età matura di sessanta anni.  Bartolena, “genericamente catalogato tra le fila dei “post-macchiaoli”, si distingue come continuatore del sincretismo realista e naturalista toscano, derivatogli dal Fattori e dalla forte impronta morale che connotava la pittura del vero quotidiano, comune alle poetiche della macchia”.  La monografia dedicata da Francesca Cagianelli a Gino Romiti ripercorre per la prima volta in termini scientifici la complessa vicenda esistenziale ed artistica di un pittore ingiustamente semplificato come seguace del macchiaiolismo.  Tappa fondamentale della ricostruzione storica effettuta nel volume diventa l’opzione stilistica di Romiti nel 1901, quando con opere di evidente impostazione socialisteggiante, mostra di aver già elaborato le tensioni divisioniste già in atto a Livorno per il tramite di Benvenuto Benvenuti, che a sua volta si dichiarava avvinto dalla lezione di Vittore Grubicy.  La svolta verso un divisionismo venato di luci simboliche è da mettersi in relazione con la presenza a Livorno della lezione luminosa di Vittore Grubicy.  Di lì a poco doveva infatti risultare determinante per l’evoluzione della formula divisionista romitiana proprio la diretta conoscenza con il maestro lombardo, conosciuto nel 1906.  Di estremo interesse dunque la scoperta operata dalla Cagianelli durante la ricognizione dell’archivio Romiti del noto manoscritto di Giovanni Segantini intestato: Savognin (Caton Grigioni), Gennaio 91, addirittura annotato di pugno dell’artista livornese con partecipe minuzia.  La novità critica del volume riguarda soprattutto l’indagine dei rapporti internazionali di Romiti con il belga Charles Doudelet: dal 1906 al 1909 l’artista sperimenta nuovi linguaggi simbolisti, in coincidenza con la frequentazione a Livorno del maestro belga. La rilettura critica si estende fino alla ricostruzione della pur brevissima stagione futurista di Romiti, come si evince da un capolavoro inedito, solo recentemente riapparso, il monumentale Fondo marino del 1914.  
Data recensione: 14/10/2007
Testata Giornalistica: Il Tirreno
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