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Due sono le culle dell’orrore moderno, una è Boston, dove nel 1809 nacque Edgar Allan Poe, padre anche del racconto poliziesco

Il libro di Bernardi Guardi rievoca l’incredibile gara narrativa che nel 1816 portò alla creazione dei mostri che hanno segnato letteratura e cinema

Due sono le culle dell’orrore moderno, una è Boston, dove nel 1809 nacque Edgar Allan Poe, padre anche del racconto poliziesco, l’altra è Cologny, cittadina nei pressi di Ginevra dove Lord Byron affittò Villa Diodati nella gelida estate del 1816. «L’anno precedente», scrive Mario Bernardi Guardi nel suo ultimo romanzo, La morte addosso. Polidori, Byron, Mary Shelley e altri vampiri (Mauro Pagliai editore, 144 pagg, 15 euro ), «nell’isola di Sumbawa, in Indonesia, il vulcano Tambora aveva eruttato violentemente, proiettando in aria miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali. Un denso velo di polvere aveva schermato i raggi solari, abbassando violentemente le temperature».
Fu quell’estate senza sole e funestata da continui temporali, goduti attraverso le numerose finestre della sontuosa magione dove i camini erano sempre accesi, a suggerire la sfida di Byron ai suoi ospiti, tutti, nonostante la giovane età, già segnati da fughe, abbandoni, tradimenti, lutti, e destinati (ma forse fu una benedizione), salvo Mary, a morte precoce: John Polidori, figlio di un esule italiano ex segretario di Vittorio Alfieri, a sua volta medico e sottomesso segretario del titanico Byron; Percy Bysshe Shelley, che diciassettenne aveva dato scandalo pubblicando un inno all’ateismo sotto forma di romanzo intitolato «Zastrozzi» e due anni dopo, fuggito in Scozia con una sedicenne, Harriet Westbrook, che una volta sposata, aveva abbandonato, inducendola a finire i suoi giorni, in quella stessa estate, nel lago Serpentine; Mary Wollstonecraft (non ancora coniugata con Shelley), figlia dell’anarchico squattrinato (come ogni anarchico che si rispetti) William Godwin e della energica paladina dei diritti della donna che portava il suo stesso nome, la quale morì partorendo la piccola Mary, nuova amante di Shelley e presto sua seconda moglie; infine, a completare la cerchia diabolica, Claire Clairmont, sorellastra di Mary (era la figlia illegittima della seconda moglie di Godwin), amantedi Byron e madre della loro figlia Allegra che, nomen non est omen, morì cinquenne.
La sfrenata combriccola, stimolata dal clima di tregenda e dalla lettura di un’allora popolare antologia tedesca di racconti gotici, «Fantasmagoriana», si entusiasmò alla proposta del loro ospite: «Aspettiamo la notte più nera, e poi ognuno si rinchiuda nella sua stanza e scriva un racconto nero come la notte. Il soggetto è l’orrore. Poi, leggeremo insieme quello che abbiamo ideato. E giudicheremo chi è stato il più bravo».
Sfruttando a pieno la licenza romanzesca, Bernardi Guardi ci racconta che non si trattò, quella notte, soltanto della data di nascita del primo abbozzo del romanzo Frankenstein, che Mary Shelley, con il determinante apporto di Percy cui diede carta bianca per apportare le modifiche che ritenesse necessarie, sviluppò e pubblicò due anni dopo; e neanche di quel prototipo di tutte le storie su mostri infernali avidi di sangue vergine, a cominciare dal Dracula di Bram Stoker posteriore di ottant’anni, che è il racconto The Vampyre di John Polidori. Certo, a Villa Diodati, il pungolo ambizioso e perverso di Byron, l’estate senza sole, il temporale incessante, la promiscuità (i vincoli sentimentali ufficiali erano nottetempo sconvolti, secondo il capriccio di anime che, come avevano dimostrato, non gradivano il freno di nessuna morale) furono le premesse grazie alle quali, come le storie della letteratura ci informano, nacquero i due mostri che scrittori (si pensi a Le notti di Salem di Stephen King) e registi continuano a riproporci variando di pocola ricetta originale: il Mostro assemblato di parti cadaveriche dal moderno Prometeo, il dottor Frankenstein; e Dracula, il vampiro dagli affilati canini (o gli incisivi, nell’interpretazione di Klaus Kinski nel non-morto Nosferatu di Werner Herzog, rifacimento di un classico del cinema espressionista tedesco realizzato da Murnau). Un ben più formidabile vaso di mali venne scoperchiato. Il torneo letterario escogitato da Byron fu, suggerisce Bernardi Guardi, un gioco al massacro che costò vero sangue e non succo di pomodoro; e i mostri non erano attori con grottesche protesi né visioni fantastiche, ma proprio loro, i giovani, immoralisti convitati di Villa Diodati.
Nessun “maledettismo”, nessuna “generazione perduta”, da Baudelaire a Hemingway ai serial killer di Bret Easton Ellis, sarebbero immaginabili senza il cenacolo infernale di alterazione, sesso panico e allucinata prefigurazione riunito nel giugno 1816, come ha intuito Ken Russell nel suo film Gothic, che, rievocando la notte di Villa Diodati, intende parlarci del nostro caos, della polverizzazione artistica e dunque esistenziale di ogni discrezione, pudore, ritegno.
Lord Ruthven, il vampiro di Polidori, è in realtà Byron. E Byron, dopo averne spremuto tutta la linfa, si era presto stancato di quel giovane medico che l’aveva interessato solo per i suoi studi sul sonnambulismo e certe blasfeme ricerche mediche sulla rianimazione dei cadaveri mediante stimolazione elettrica, il galvanismo. Nel 1821, solo e indebitato, Polidori si avvelena. Quanto a Mary Shelley, la figlia della prima femminista della storia moderna, non aveva versato più lacrime del suo amato Percy quando la prima moglie di quest’ultimo si era annegata dopo l’abbandono del marito. Ecco da quale sostrato intimo, da quale «notte più nera» della psiche nacquero i mostri che oggi ancora ci perturbano. 
Data recensione: 09/05/2021
Testata Giornalistica: Libero
Autore: Giordano Tedoldi