chiudi

Ventotto anni, fiorentino, una passionaccia per il cinema, un recentissimo passato da pubblicitario, lungo lungo, sottile come il protagonista del racconto “Boxe”, il primo del

Ventotto anni, fiorentino, una passionaccia per il cinema, un recentissimo passato da pubblicitario, lungo lungo, sottile come il protagonista del racconto “Boxe”, il primo del libro “Pugni” (editore Sellerio, pagine 188, euro 12) che è valso all’autore una sorprendente sfilza di recensioni, fra il positivo e l’osannante. Parliamo di Pietro Grossi, semidebuttante (anni addietro per la casa editrice fiorentina Polistampa aveva pubblicato la sua prima fatica, “Touché”, sponsor un pezzo da Novanta come Enzo Siciliano) ma già candidato fra i finalisti di numerosi premi, su tutti un posto nella cinquina del Premio Strega, con 39 voti, terzo nella selezione di Valle Giulia.
Nel racconto d’apertura, appunto “Boxe”, il più corposo e certamente il più riuscito dell’intero volume, l’autore racconta di un’iniziazione alla vita che passa attraverso il ring. Un farsi largo duro che sa di sfida agonistica, ma soprattutto di iniziazione esistenziale. Il protagonista, il “ballerino”, è un lungagnone di buona famiglia. Trova il suo cammino verso il successo agonistico intralciato da un coetaneo che, diversamente da lui, nasce male e per di più è afflitto da un grave handicap. La sfida fra i due baby boxeur segnerà la chiusa e al contempo la catarsi della storia.
A Pietro Grossi abbiamo chiesto non tanto di parlare per l’ennesima volta del suo fortunato “Pugni”, ma piuttosto di fare il punto sui suoi trascorsi con la nobile arte e su quanto di personale si può rintracciare fra le righe della vicenda raccontata nel libro. Gli abbiamo chiesto anche del suo modo di considerare oggi il pugilato, se lo pratica ancora o se semplicemente lo segue da spettatore.
Perché uno scrittore giovanissimo sceglie un argomento tanto particolare, quale la boxe, per raccontare una storia così marcatamente di formazione?
«Perché l’ho scelto direi che non so. So però che faccio pugilato da almeno dodici anni. Ed era tanto che volevo scrivere sulla boxe, avevo la prima frase del racconto in mente. Ho cominciato e non mi sono più fermato».
C’è molto di personale quindi nel suo libro?
«Sì, direi di sì, non è autobiografico, però c’è molto di mio».
Il pugilato anche come modello letterario?
«Ho letto molto sulla boxe. Jack London naturalmente ma non solo. Credo peraltro che il pugilato sia un teatro perfetto per raccontare delle storie interessanti. È raro infatti trovare una zona altretanto circoscritta che consenta di mettere alla prova dei confronti, insieme così estremi ed eleganti».
Campioni amati e a cui in qualche misura i personaggi del racconto si ispirano?
«Sicuramente l’immenso cubano Sugar Ray Robinson, e poi naturalmente Mohamed Alì, alias Cassius Clay. Fra quelli in attività, ho una passione particolare per Oscar De La Hoya, medio latinoamericano. Poi quando posso la seguo come spettatore. In particolare mi piacciono i dilettanti: se le danno di santa ragione e i loro match sono comunque onesti».
Quindi la boxe in un certo senso è scuola di vita?
«Certamente. Nel ramo dei cazzotti fa bene darne ma è persino meglio prenderne».
Ha partecipato anche a dei combattimenti veri?
«Ne ho fatti due, ma mi sarebbe piaciuto farne di più. Nel momento in cui potevo avere una vera carriera agonistica ho dovuto fare scelte di vita diverse. Oggi mi spiace, parecchio».
Data recensione: 03/07/2006
Testata Giornalistica: Il Secolo XIX
Autore: ––