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Mi voglio sbilanciare subito. Il libro di Donatella Contini intitolato In tre tempi , uscito nella “Biblioteca del viaggiatore”, diretta da Mario Graziano Parri, per l’editoreMauro Paglia

Mi voglio sbilanciare subito. Il libro di Donatella Contini intitolato In tre tempi , uscito nella “Biblioteca del viaggiatore”, diretta da Mario Graziano Parri, per l’editoreMauro Pagliai, è il libro più interessante, il più riuscito, fra i tanti scritti da lei scritti nell’ambito della narrativa e del teatro. Un libro che non appartiene né alla narrativa, né al teatro, ma è, si potrebbe dire, il loro avantesto. È il libro segreto, l’urtesto, e insieme è un libro ricapitolativo. Ho detto che è il libro che preferisco, non ho detto quello più bello, anche se forse potrei arrivare perfino a dirlo. Diciamo che è il libro che in qualche modo attendevo. Alcuni anni fa è uscito per l’editore Nicomp, un grande, elegante volume intitolato Racconti, che raccoglie e antologizza quasi tutta la produzione letteraria dell’autrice, dal libro del 1991, Del colore del rio della Plata, a La casa dalle mille porte del 2007. un libro di oltre 400 pagine che andava ad affiancare i preziosi libretti di tutto il teatro, usciti per lo stesso editore (da Due atti unici del 1998 a L’autore smemorato e Le due signore, del 2001; da Ritratto senza testa - A Portrait without a head, con testo italiano e inglese, del 2002 a L’ultima vittima e In memoria della principessa Sofia, del 2003; e infine da L’ombra del Manzoni, del 2004 a Dialoghi in scena, del 2005). I lettori – soprattutto i lettori doc in cerca di bilanci critici complessivi – avevano a disposizione, ben confezionate, le due zone della scrittura e dell’immaginazione di questa scrittrice, definita da Marino Biondi, nella sua acuta e illuminante introduzione al libro totale dei Racconti “come affabulatrice perfetta e maligna” (“maligna” naturalmente per indicare un genere letterario, a suo modo “noir”, così splendidamente in sintonia con le mie fiere “spietate”, non certo per esprimere un giudizio morale), una formula efficace e suggestiva per sottolineare gli “incantesimi favolistici” dagli esiti “minacciosamente imprevedibili” di una immaginazione mirabile e altrettanto imprevedibile, e così per sottolineare la “qualità allarmante della scrittura”, la sua implicita “tossicità analitica”. una grande scrittura – questa – che tira il collo alla retorica dei buoni sentimenti,ma tira il collo anche a un realismo addomesticato e impoverito. Mi sono occupata più volte dell’opera di questa scrittrice, ora della narrativa ora del teatro, senza mai arrivare ad esprimere la mia predilezione: preferisco di più la narratrice o la scrittrice di teatro?Ma sono poi separabili? Non sono, come penso, i due lati della stessa medaglia, da leggersi in maniera speculare e integrata? Ci sono domande che sono quasi d’obbligo per capire il dna dell’arte di Donatella Contini. In primo luogo questa: quale funzione ha la scrittura teatrale rispetto a quella narrativa? Rispondo subito a questa questione, con una ipotesi abbastanza contraddittoria. Io credo che il teatro sia stato un punto di arrivo della scrittura narrativa di Donatella Contini, in uno scivolamento che era quasi inevitabile, visto l’asciuttezza della descrizione, la centralità dei dialoghi, la forza drammatica dei testi narrativi. E poi, una volta uscita alla luce la scrittura teatrale, con Due atti unici del 1998, con il notevole successo di pubblico delle numerose rappresentazioni sul territorio nazionale di tutti i vari drammi (grazie soprattutto all’energia e all’estro del regista Francesco Tarsi), la scrittura teatrale ha dilagato e si è imposta, fino a diventare l’unica vera scrittura dal 2001 in poi (quando era uscita la bellissima e ultima raccolta di racconti Le cose fuori posto per l’editore Polistampa) per riprendere poi, con una intensità e potenza micidiali con La casa delle mille porte, in cui la voce letteraria è tornata a parlare toccando vertici narrativi mai raggiunti prima (e allora si è oggi portati a pensare, al contrario di quello che ho detto poco prima, che il teatro è diventato, a un certo punto, una specie di incubatrice formidabile della nuova stagione narrativa). Eppure, si capiva che dietro questi due potenti diaframmi artistici fermentava qualcosa che costituiva il centro d’imputazione dell’intera operazione: il proprio negato autoritratto, o, per dirla con il titolo dell’ultimo pezzo del libro In tre tempi, il proprio Autoritratto smarrito, di cui cito soltanto l’inizio e la fine:

“No, non mi conoscevo. Sapevo tante cose di me che mi erano accadute nel tempo. da quando guardavo e basta, con occhi rotondi, a quando scrivevo disperatamente come una nave spinta dalla forza di strani venti che la portano qua e là, a quando, insperatamente, chissà come, era avvenuto l’incontro, il grande incontro decisivo con l’amore. E da qui in poi, come per una sterzata, tutto era cambiato. Perché adesso ci tenevo alla vita, non galleggiavo e basta, c’ero dentro, immersa fino in fondo con lui, noi due soli insieme, i prescelti. […] E sarebbe il momento di svelarsi, fare il proprio ritratto. Ma si può? Forse neppure Rembrandt che si ritraeva continuamente a ogni svolta, giovane vecchio maturo, forse neppure lui conosceva se stesso. Provava e riprovava. E gli riusciva, o così sembra a noi. Sapere tante cose, ricordarle, risentirle presenti non basta. No, non mi conoscevo, finché un giorno…” (pp. 187-188).

Siamo di fronte al libro più segreto e insieme più esplicito di Donatella Contini, quello in cui la scrittrice mette la sordina alla sua proverbiale spietatezza rappresentativa – frena la spinta drammaturgica, in lei potente – e si pone di fronte ai personaggi della propria opera, ai personaggi della propria vita, con uno sguardo aperto, liberato dalle inquietudini e dalle ombre delle sue opere maggiori, voglio dire le sue opere letterariamente canoniche. dalla penombra alla luce (come Elia, che nell’epigrafe di apertura della prima parte, Tra le stanze di casa, sente una “voce di silenzio sottile”, si copre il volto col mantello e esce, fermandosi all’ingresso della caverna). Voglio dire che, con questo libro autobiografico, Donatella Contini riesce a attualizzare la funzione fantasmatica che sostanzia le opere maggiori della narrativa e del teatro. Non più occhio, ma sguardo. Chiude per un momento i sipari della propria caverna teatrale, esce lei stessa allo scoperto. Insomma, credo che con questo libro autobiografico, dove tutto non può essere detto – sia chiaro – Donatella arrivi comunque a codificare le proprie emozioni, lasciando i testi aperti (è questa l’impressione) per indicare a noi lettori e interpreti che è giunta alle prese con una materia irriducibile alla linguisticità. Prima di tutto, l’esperienza dell’amore, della complicità emotiva e intellettuale che fa di G. (sempre nome puntato) non solo il coprotagonista di questa educazione sentimentale, ma addirittura il coautore e, ancora di più, il lettore e l’interprete privilegiato dell’opera. A G., infatti, è dato il privilegio di scrivere una bandella di copertina che sembra a me davvero splendida, necessaria, criticamente e poeticamente illuminante che invito tutti a leggere prima di entrare nell’universo della narrazione. Ecco, illuminata “la silenziosa suggeritrice di se stessa”. Ecco, la scrittrice finalmente “a viso aperto”. Ecco, l’autrice che attraverso la memoria compone il suo “museo delle cere”, in cui ritrovarsi e in cui perdersi, perché la memoria qui è sentita un po’ restauro, un po’ emorragia dell’io. Inutile dire che questo libro di Donatella Contini è anche una memoria familiare, più utile dire che questo libro andrebbe letto a specchio col libro autobiografico di Giorgio Weber, Nelle reti della famiglia, e con quello del fratello Ugo Contini Bonacossi, Alla scoperta del passato, che presentammo qui all’Archivio di Stato alcuni anni fa e, infine a specchio, dei diari della nonna Vittoria, che sono stati donati all’Archivio di Stato e che sono stati studiati con finezza da Rosalia Manno. Libri di famiglia, tutti, ma anche figure di una lettura di sé – come teorizza Carla Locatelli che vede nell’autobiografia, prima di tutto, una figura di lettura, ma anche, sulla scia di Paul di Man come una specie di “sfiguramento”. Scrittura autobiografica come seconda nascita, sostiene invece suggestivamente Aldo Gargani, come una misteriosa gestazione gravidanza interiore di se stessi. Libro autobiografico per eccellenza, dunque, ma formalizzato in tre tempi. Quando ho letto il sottotitolo “romanzo”, mi sono detta: che fa l’editore? Un’operazione di contrabbando? Poi, ho capito. In qualche modo avviene uno slittamento. Come in alcune autobiografie, qui, ci si accorge soprattutto della fuga di chi ne è il soggetto. Sfida impossibile di una scrittura che tenta continuamente il passaggio dall’auto- biografia all’oggettivazione della biografia, una scrittura in cui l’autrice è contemporaneamente la cacciatrice e la preda in fuga. un inseguimento materiale – sia chiaro – non metaforico. Ecco spuntare quel pizzico di letterarietà, di finzionalità (di ostacolo direbbe Starobinski) che permette la trasparenza. La scrittrice cacciatrice coi cinque sensi sempre all’erta si mette sulle proprie tracce. L’altra, sepolta nel passato, recalcitrante, sfugge e non sfugge. La letteratura è forse il più potente degli allucinogeni? oppure può succedere che la preda a lungo inseguita prenda dimora nel corpo del cacciatore per guardare il mondo attraverso i suoi occhi così da sfuggirgli per sempre? Il primo tempo, Tra le stanze di casa, è il più intimo, Moments of being, come inVirginiawoolf. Mi soffermo brevemente solo su questo primo tempo, lo parafraso, perché mi serve per arrivare a un fotogramma che mi è caro, per ragioni personali. un album di immagini, come i francobolli del nonno, i preziosi quadratini di carta “che spesso gli sfuggivano”. Donatella che fa il broncio, la tata Ina, “la persona su cui si può contare, sempre”, che dice ai bambini “Lavatevi le estremità”; l’adolescenza che scaraventa nella vita, “senza perdono”. I luoghi: Roma, Firenze, il Forte dei Marmi, Capezzana. I nonni e la loro collezione d’arte;VillaVittoria, Longhi eAnna Banti, i letterati, Sandrino e la sua fuga oltreoceano. Marco Forti che gli fa conoscere G. puntato, e da allora tutto viene vissuto e rivissuto nel tempo che nella grammatica del greco antico viene definito “il duale”. Qualche coordinata storica, messa solo per far cornice: la guerra, l’8 settembre. Il dopoguerra, il Premio Viareggio dato a Gramsci, per le Lettere dal carcere. Gli amici: Corrado Pavolini, Marcella Hannau, Giampi Carocci tornato dal campo di concentramento. Anna Banti che studia canto con la mamma, la faccia interna delle mani della mamma; lo schiaffo del padre, perché lei ha fatto tardi, la sera, per stare con G. che, quando sa dello schiaffo, sorride quasi contento – è così che devono andare le cose per una ragazza onesta – mostrando “la loro alleanza di maschi”. Il matrimonio, il viaggio di nozze a Parigi, lei con cappello di paglia e pelliccia; la nascita di Maria. Qui il racconto autobiografico si interrompe. Ho ricordato solo qualche fotogramma rapidamente per giungere a questo punto, lo so. C’è l’immagine di due bambine di quattro o cinque anni, sul balcone di casa, tutte e due alte uguali, le due cugine, Maria e Sandra. Mi piace lasciarle lì a guardare fuori; ci hanno lasciato qui, noi, con l’inspiegabile nostalgia di loro. Subito dopo c’è l’epilogo. Donatella è maestra di epiloghi. Indimenticabile il carosello felliniano che chiude i Racconti, col cappello di Gilda che rimane fuori della porta che si chiude, rimane a volteggiare nel vento. Qui, alle pagine 59-62, un altro carosello, con le persone viste di schiena. un lento corteo di ombre in controluce. un bizzarro Paradiso, dove ognuno dice la sua. Avviene così che questo urtesto, questo testo “generativo” e sommerso accede alla sua estrema, spericolata traduzione. Non dico nulla sul secondo tempo, sull’intermezzo, sul diario dei viaggi, intitolato Nella Repubblica delle scienze, perché ne avevo scritto già in occasione della stampa dell’originale libretto Quaderni di viaggi. Siamo, dicevo, al terzo tempo, al tempo dell’estrema, spericolata traduzione. Non è forse per questo – mi domando- che il terzo tempo del libro arriva come tentativo ulteriore di ricercare il suono della propria esistenza nelle voci degli altri, nei destini degli altri? un album di ritratti. Meravigliosi ritratti – soprattutto quello della Signora dei libri, la studiosa ormai fuori testa che accarezza le copertine dei libri – “libri su libri cresciuti come piante selvatiche” – accarezza la costola dura di una rilegatura, ascolta lo scroscio delle pagine sfogliate, “li prende in mano, li rigira, a volte si ferisce le mani” (pp. 149-152). Meravigliosi ritratti, dicevo, come quello di Le tende tagliate, dove una donna meravigliosa, colta, felice, aristocraticamente noncurante, in una grande villa immersa nel verde, non si preoccupa che la sua casa vada a pezzi, piano piano, giorno dopo giorno. Le tende rosse si sciupano, si rompono, e lei prende le forbici e ne taglia le parti sciupate, così “che gli immensi finestroni che davano sul giardino risultavano tutti diversi come accade in un prato di fiori selvatici, più o meno alti, più o meno vistosi secondo la loro posizione nello spazio che occupano in un disordine crescente” (pp. 179-182). tutti ordinatamente introdotti – i capitoli di questa terza parte, fatta di ritratti – dalla stessa parola: “Era”. “Era una bella donna…”. “Era un gentiluomo…”, e così via. un museo d’ombre. C’è posto perfino per una Contini in veste politica, col ritratto del vecchio “compagno” comunista incontrato su un autobus, loquace, spaurito, tenace, coi capelli ritti e le indomite, patetiche utopie egualitarie. C’è perfino Berlusconi, tirato a lucido, come certi attori della televisione. Si spera di vedere lo smalto appannarsi – si dice – tramutarsi in cenere. Cancellare l’incubo con un flic della penna. Grammatica del desiderio, piccoli, immaginari regolamenti di conti. Ci sono poi alcuni ritratti di famiglia, come in una specie di ingrandimento di fotogrammi già presentati nel primo tempo: il padre, poeta e moralista, che in vecchiaia cerca di essere di nuovo felice; il “nonnone” con le sue paure; la sorella Laura sempre distratta e generosa; il fratello malato,Antonio, che forse è l’unico a capire veramente le cose; la cugina che ha dissipato un patrimonio, ma che è la vera vestale delle memorie di famiglia. Strappa questi ritratti all’immobilità del dagherrotipo, li trasforma nelle “occulte visioni” di cui parla Paul Klee, nell’epigrafe posta ad apertura della terza pala del suo dipinto. occulte visioni. Ritratti come autoritratti a perdita d’occhio. Come nella réclame di Zingone che Donatella bambina vedeva lungo la strada di ostia: “Zingone veste tutta Roma”. “Rappresentava una figura che si guardava nello specchio con dentro una figura che si guardava nello specchio e così via, all’infinito” (p. 17). una sezione, la terza, aperta da uno strano viaggio in wagon lit, dove la protagonista, come Pirandello dell’Ultima giornata, sembra perdere ogni contatto col fuori. È “il tempo di un sogno?” – si chiede la protagonista – “Chissà. Sono così strani e malfidi i tempi del sogno” – commenta l’autrice, mentre ricorda come da bambina si sentisse spesso sola e intanto le torna in mente una scena del passato, rassicurante, come in un film in bianco e nero: viaggiatori eleganti, donne raffinate, e i loro infiniti bagagli, “valige su valige di cuoio pesante, con le cifre del nome bene in vista…cappelliere”. dove andavano quei signori felici? “Forse neppure lo sapevano. Partivano” (p. 147). Una postilla fuori dalle mura. Si avvisa il lettore che nel frattempo – mentre queste mie note riposavano in un cassetto – sia Giorgio weber che Donatella Contini non sono stati certo con le mani in mano. Donatella ha pubblicato un altro splendido libro di racconti, intitolato L’impronta, uscito sempre nella collana Biblioteca del viaggiatore dell’editore Mauro Pagliai, con una illuminante introduzione di Mario Graziano Parri. Mentre Giorgio Weber, al di là dei suoi numerosi studi di anatomo-patologo, ha dato alla luce una serie di libri di carattere autobiografico e di poesia davvero belli. Qualche titolo: Nella rete della famiglia (Polistampa 2010), una storia genealogica; Mal d’arte. Patologo tra gli artisti (Mauro Pagliai Editore, 2011); Le voci della materia. Patologo tra gli artisti (ivi, 2013); e infine un libro di poesie che ha spiazzato tutti, Senza rete (poesie, Polistampa 2014), un libro intenso, originale, forte.
Data recensione: 01/01/2015
Testata Giornalistica: Il Portolano
Autore: Anita Valentini