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L’opera novellistica di Bruno Cicognani – autore caduto per così dire in disgrazia e quasi dimenticato dopo aver conosciuto, vivente

L’opera novellistica di Bruno Cicognani – autore caduto per così dire in disgrazia e quasi dimenticato dopo aver conosciuto, vivente, grande successo, ed essersi meritato le lodi di critici come Baldacci e De Robertis – torna alla luce nei primi due volumi dell’edizione delle sue «Opere» diretta da Marco Dondero: Le novelle, a cura di M. e C. (rispettivamente per il primo, che raccoglie la produzione degli anni 1915-1929, e per il secondo, 1930-1955), pubblicati da Mauro Pagliai Editore. Entrambi i volumi presentano sia un’introduzione all’autore e alle novelle raccolte nella silloge, sia una ricca nota al testo che fornisce criteri di edizione, breve storia editoriale delle singole novelle e alcune osservazioni generali circa la loro struttura e lingua. L’edizione criticamente accertata ripropone quella pubblicata da Vallecchi nel 1955 e stabilita da Cicognani stesso, che la pensò come florilegio della propria produzione novellistica: quasi tutte le novelle erano infatti già comparse due volte, dapprima sui giornali e poi in una fra le molte raccolte pubblicate dall’autore tra il 1917 e gli anni Cinquanta, e poche erano le inedite. Con l’eccezione di una novella molto rimaneggiata che viene integralmente fornita in appendice al lettore (I, pp. 401-412), i due curatori hanno scelto di rendere conto delle sole varianti sostanziali degne di nota e non di quelle formali, di cui tuttavia ottimamente illustrano le caratteristiche nelle rispettive Introduzioni, secondo la duplice specie dei mutamenti nel gusto privato dell’autore e degli adeguamenti al collettivo, spesso nella direzione di una smorzatura del forte accento locale. In questo senso, i due curatori si sono limitati da una parte alla correzione di errori tipografici e refusi, e dall’altra all’ammodernamento di alcuni elementi grafici che non interferiscono con le scelte stilistiche e linguistiche dell’autore, le quali rimangono pertanto apprezzabili nella propria peculiarità (è questo il caso, ad esempio, del verbo avere accentato e senza aspirata nella coniugazione presente, dell’uso delle consonanti scempie, ecc.: fenomeni tutti che vengono mantenuti). Collazionando l’ed. Vallecchi con le versioni delle stesse novelle precedentemente apparse sui giornali o nelle raccolte, M. sottolinea come Cicognani sia stato «un meticoloso revisore di se stesso» (I, p. 20): se nel passaggio dalle singole raccolte al volume antologico le novelle raramente subiscono varianti tematiche o sostanziali (puntualmente segnalate comunque dai curatori nelle note ai singoli testi), discreto è invece il rimaneggiamento sul piano formale, in ispecie per quanto riguarda le novelle provenienti dalle prime raccolte e dunque scritte in un tempo più lontano da quello in cui Cicognani stabilisce la propria antologia. Nella nota al testo, M. analizza le dimensioni toccate da questi mutamenti (la paragrafatura, il ritmo, l’uso delle maiuscole e minuscole, alcune norme ortografiche e così via). Ci limiteremo in questa sede ad accennare a quella di maggior ampiezza, e cioè la punteggiatura. M., prendendo come riferimento un testo campione (La Zaira) di poco meno di 25.000 caratteri, offre alcuni dati interessanti: nel passaggio dalla edizione in raccolta a quella in antologia troviamo ben 53 virgole aggiunte, 17 virgole mutate in segni interpuntivi più intensi, e 21 segni intermedi trasformati in punti fermi. Un dato che la studiosa spiega alla luce sia della personale scelta di Cicognani di ridimensionare l’uso espressionistico della punteggiatura, sia di un’adesione al processo di ammodernamento e normalizzazione dell’interpunzione: tanto da poter effettivamente considerare l’insieme delle varianti nelle Novelle alla stregua di «una prospettiva privilegiata sul laboratorio di fenomeni linguistici, ortografici, interpuntivi ecc. che attraversano la lingua italiana nella prima metà del Novecento» (I, p. 26). Commentando sempre il lavoro di revisione (generalmente mirato e testualmente circoscritto, e assai di rado di portata strutturale), C. ne mette in evidenza nella propria nota al testo le interessanti ripercussioni sul piano diegetico (II, pp. 22- 23): parallelamente alla soppressione di brani ritenuti superflui o ridondanti, infatti, l’autore provvede ad inserirne di nuovi che affinino o chiarifichino la già esperta penetrazione psicologica dei personaggi, peraltro giustamente segnalata dai curatori tra gli esiti più interessanti di Cicognani. Interessante poi l’osservazione, sempre di C., che identifica incipit ed explicit dei testi come luoghi di maggior incidenza correttoria. Altra direzione delle revisioni d’autore è, come risulta dall’analisi condotta da M. sui mutamenti ortografico-linguistici, quella verso un maggior avvicinamento della lingua al parlato, in senso antiletterario e in tono del resto con l’energica freschezza di Cicognani, che pare – fino in certe ingenuità compositive, facilmente perdonate – raccontare con l’urgenza e coi modi di un narratore popolare che discuta coi propri concittadini le vicende – spesso di forte valenza morale – di una storia locale e condivisa, col desiderio di tenerle vive che sembra coesistere con il gusto affabulatorio (M. sottolinea, tra gli interventi extradiegetici di Cicognani, un’interessante apostrofe ne La disgrazia di Rutilio al lettore fiorentino e alla sua memoria storica: «Se t’è mai avvenuto, fiorentino lettore [...] di lasciarti condurre dal diavolo romantico nei giardini del Bobolino o sui prati delle Cascine, ti ricorderai certamente di aver visto su qualche panchina un giovinotto [...]», I, p. 15). Fiorentinissimo, infatti, nello stile come nello spirito, Cicognani non è per questo da rinchiudersi negli spazi angusti del bozzettismo: il colore su cui ama indugiare, nella tessitura verbale (e fin nelle scelte grafiche di cui si è detto) come nella scelta dei propri temi, è infatti riscattato da una prosa fresca e sapida, capace di aprirsi a trovate felici e inaspettate (un esempio a caso: «un omiciattolo panciasalvadanaio », I, p. 45) che paiono dimostrare come l’autore possa pervenire allo stile, al controllo su una forma originale, al di fuori di ogni esperienza avanguardistica e pur tuttavia ugualmente lontano da una prosa di maniera; come pure a squarci lirici di esito spesso più che apprezzabile, e comunque funzionali all’economia della narrazione – magari sotto la specie di quelle «sottili corrispondenze, per affinità o per contrasto, [della psiche dei personaggi] con il paesaggio circostante» che C. rintraccia (II, p. 15) e allarga poi al movimento fisico dei personaggi stessi nella topografia fiorentina (come nel caso del movimento centrifugo de L’Ines). Nei suoi momenti migliori Cicognani può accostare i modi, se non sempre la qualità, del pure toscanissimo Tozzi: e ci sono mostrati allora, come nell’ottima novella Bechèsce (I, pp. 85-111), il dolore e le bassezze di un’umanità torta, che brulica tra i vicoli umidi di una Firenze descritta nella sua marcescenza, annerita e sbocconcellata fin nella pietra dalla stessa miseria morale e materiale che ne incattivisce gli uomini, ciascuno ciecamente teso alla sola affermazione di sé nel mondo come una pianticella nelle tenebre (Emilio Cecchi, peraltro ammiratore di Cicognani, lamentava l’obliterazione di ogni «aspetto monumentale» nella sua Firenze come pure l’insistenza – di marca spiccatamente naturalistica – sulle realtà «più cieche e derelitte», I, p. 7). Scrittore, come spiega C. (II, p. 11), di cristianesimo sofferto e originale, Cicognani non fa mai vibrare le corde false di una devozione dolciastra: il mondo popolato dai personaggi delle sue novelle è impietoso, e nella piazza del mercato i (rari) santi rischiano di essere derisi, o peggio. Tacita, la minaccia della violenza sembra sempre incombere dietro le leggi spietatamente economiche che regolano ogni umano rapporto, la maggior parte dei quali, se deve qualche cosa al Vangelo, potrebbe al più ricordarci il cupo versetto di Mt 10, 21: «Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno ». Neppure l’ambito più ristretto dei rapporti familiari, spesso, pare infatti al riparo, come non lo sono quelli erotici: M. insiste (I, pp. 12-14) sul forte dato autobiografico della narrativa di Cicognani, e di nuovo senz’altro tozziani suonano i toni ad es. di Lulù, il cui personaggio paterno spingerà (forse) il figlio al suicidio seducendone la moglie – e può essere di qualche interesse osservare come si tratti, qui, di uno degli infrequenti casi di racconto d’ambientazione borghese, la quale non perciò risulta meno lupigna dei chiassioli popolareschi. L’eros, di volta in volta messo in scena scopertamente o efficacemente alluso (ma C. ci informa di un labor limae di Cicognani volto a sfumarne l’espressione in fase di rimaneggiamento: cfr. II, p. 22), non di rado si configura come terreno di lotta per eccellenza, e cartina di tornasole privilegiata della natura misera e profittatrice delle relazioni sociali: fa bene, sempre C., a sottolineare «l’esplorazione analitica» (II, p. 6) su cui insistono le novelle. L’amore è un grave pericolo: e se il conte Lorenzi, eponimo di una breve e delicata novella (II, pp. 47-55), potrà solo per poco conoscerlo prima della morte dell’amata, bastandogli questo tuttavia per ricevere un poco di senso a un’esistenza altrimenti sterile e che potrà ora invece consacrarle, al tisico forestiero Sascia in Aniuta (pp. 359-365) toccherà assistere impotente, dal capezzale, al crescere ineluttabile dell’attrazione tra la propria amante e il giovane, sano dottore del luogo che dovrebbe curarlo, dolorosamente prefigurandosi un mondo che già non lo include più. Una convinta, sebbene tormentata, moralità presiede però alla violenza intrinseca al mondo letterario rappresentato da Cicognani: anche quando pervenga agli esiti della caricatura o della commedia, non scevri tuttavia di una certa toscana malizia e mai rinunciando a una vena sottile d’amarezza (come è il caso, ad es., ne La Zaira o ne La disgrazia di Rutilio). Sempre l’autore dimostra, infatti, una profonda, creaturale pietà per i poveri abitanti del suo mondo ed in ispecie per quelli tra loro – e se indubbia risulta l’efficacia dei ritratti di Cicognani in genere, particolarmente riuscita ci pare la sua galleria d’inetti – che consumano l’esistenza senza mai poter giungere a ciò che M. definisce una «impossibile appartenenza alla vita» (I, p. 10). 
Data recensione: 01/01/2014
Testata Giornalistica: La rassegna della letteratura italiana
Autore: Nicolò Moscatelli