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C’è un bisogno di futuro in questa nostra Italia e in questa nostra Europa a cui troppo spesso si risponde cercando una definizione di ‘che cosa siamo’

C’è un bisogno di futuro in questa nostra Italia e in questa nostra Europa a cui troppo spesso si risponde cercando una definizione di ‘che cosa siamo’, tentando di tracciare un confine fra noi e ‘gli altri’ che abbia pretesa d’assolutezza. Eppure, appena trascorse le celebrazioni dei centocinquanta anni del nostro essere stato unitario, nazione, popolo fra i popoli europei, sembra difficile riuscire a fissare la linea oltre la quale inizia l’italianità o l’europeità. Quello che a ben guardare emerge è la coscienza di un’appartenenza a una comunità, a una storia e a una memoria, sedimentazione lenta delle generazioni che si susseguono, di vite e di ricordi. A questa memoria attinge il romanzo di Alberto Guasco La stilografica di piazza del Cavallo (Mauro Pagliai Editore, 2012), opera letteraria prima di uno studioso rigoroso e serio della storia recente del nostro paese, soprattutto degli anni della dittatura fascista e di quel confondersi e mischiarsi di responsabilità fra politica e Chiesa, fra Dio e Cesare che ancora oggi è aspetto non del tutto compreso e accettato del nostro passato.
L’autore, suo padre e suo nonno: tre generazioni, tre storie e una memoria. Questo, in fin dei conti, il filo conduttore del romanzo, costruito come la ripresa di un discorso interrotto trent’anni fa da chi all’epoca era un bambino vivace nella campagna piemontese di una calda estate. I giochi, le amicizie e le imprese della nazionale di Bearzot al Mundial spagnolo diventano lo sfondo su cui si staglia il racconto del nonno, la storia personale e collettiva di una comunità che paga il suo tributo alle trincee della Grande Guerra e vede dilagare le violenze fasciste e affermarsi il regime. Una terra e i suoi abitanti, gente semplice e umile, capace di uno spirito di sacrificio che porta un giovane contadino a ottenere la licenza di maestro, subito abbandonata perché il Duce d’Italia rivendica alcune migliaia di morti per sedere al tavolo della pace. Di morti, in quegli anni fra il ’40 e il ’45, l’Italia ne avrebbe sofferti molti di più e per sedere al tavolo dei vinti. Anni terribili che scorrono nelle pagine, veloci e scandite dall’addestramento e dall’innamoramento, dal trasferimento a sud alla vigilia dello sbarco degli Alleati in Sicilia, poi l’8 settembre, la guerra partigiana e il 25 aprile, Torino libera e l’Italia che si lascia alle spalle lutti e dolori.
Vent’anni dopo un giovane ingegnere italiano parte per l’URSS per specializzarsi presso il Politecnico di Mosca, fiore all’occhiello della ricerca scientifica sovietica negli anni del Socialismo Reale. Dalle nebbie della Mosca brezneviana emergono tutte le contraddizioni di una parte del mondo che già allora, sul finire degli anni ’60, entrava in una crisi irreversibile proprio mentre la gabbia del regime si stringeva sempre più. Eppure nei ricordi del giovane ingegnere trova posto anche l’amicizia, qualcosa che nemmeno i più stringenti controlli dei servi segreti sovietici erano in grado di controllare. Così, nel dramma a tratti grottesco di un regime che tenta di pianificare ogni aspetto della vita, barlumi di umanità e quotidianità dilatano le maglie di quella cortina di silenzi e violenze che ha stretto l’Europa dell’est per mezzo secolo.
Tutto questo, queste due storie, si amalgamano nella curiosità di un bambino che, diventato adulto, trova nel padre e nel nonno i suoi eroi, o meglio ancora, i protagonisti umanissimi della sua storia. E tutto finisce per ricomporsi nella notte della finale del campionato del mondo del 1982, la notte del 3-1 alla Germania Ovest, di Pertini che grida ‘non ci prendono più’, dell’Italia che si prende una pausa dalle preoccupazioni della crisi e di un terrorismo che ancora chiedeva il suo tributo di sangue.
Il romanzo di Guasco mette insieme l’Italia del fascismo, della guerra e della Resistenza e l’URSS che ha appena “evitato l’invasione della NATO in Cecoslovacchia”, stroncando le speranza di un’Europa pacificata. Due frammenti di storia, due grumi di ricordi fusi nella vita dell’autore. In questo bisogno quasi disperato di memoria, La stilografica di piazza del Cavallo è un piccolo esempio di come potersi sentire parte di qualcosa da cui veniamo e che ha in se il bene e il male, il coraggio e la vigliaccheria, l’amore e la violenza, e che ci rendono quello che siamo.
Data recensione: 25/04/2012
Testata Giornalistica: Micromega
Autore: Riccardo Saccenti