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A certi libri anche di indiscutibile carattere può toccare tin destino carsico: appaiono ricevendo un’accoglienza favorevole

A certi libri anche di indiscutibile carattere può toccare tin destino carsico: appaiono ricevendo un’accoglienza favorevole; cadono poi rapidamente in dimenticanza; vengono riproposti dopo anni o decenni con una risposta positiva; affondano poi in una sorta di rispettoso oblio persistendo magari nella memoria di specialisti e lettori forti; tornano poi talvolta alla ribalta con la dignità (ormai “storica”) di reperti preziosi preziosamente stretti all’epoca di cui sono intrisi.
È stato questo anche il destino di un libro per molti versi ancor oggi significativo per meriti documentari e vivacità di vibrazioni private, sociali, politiche, artistiche ecc. come Parigi era viva. La capitale dell’arte nel ventesimo secolo di Gualtieri di San Lazzaro, da poco tornato a circolare tra noi (Edizioni Polistampa) grazie alle generose e intelligenti cure di Luca Pietro Nicoletti.
L’opera uscì in prima edizione nel 1948 presso Garzanti ed ebbe il Premio Bagutta Opera Prima 1949. Mondadori lo ripropose nei Record (1966) in un’edizione modificata e accresciuta dall’autore. Ora si può tornare a leggere questo libro a suo modo extravagante (eppure rigoroso) come la testimonianza probabilmente più significativa sulle vicende dell’arte che durante la prima metà del secolo XX videro la Francia, e soprattutto Parigi, come assolute protagoniste della cultura visiva mondiale. Non credo sia una bizzarria usare a proposito di Parigi era viva il termine “extravagante”, perché in realtà in questo testo un rilevantissimo versante memorialistico di prima mano agisce in parallelo a un’intenzione narrativa autobiografica insopprimibile (pur se camuffata per ragioni discrezionali). Insomma, siamo in presenza di un romanzo assolutamente sui generis, nel quale l’autore si prende la libertà (talora certo non poco spinosa) di occultare sotto altro nome la reale identità di certi personaggi di non primissimo piano, mantenendo ovviamente quella degli artisti e degli intellettuali che sono i protagonisti della narrazione. C’è da supporre che il gusto di giocare coi nomi fosse un connotato quasi fisiologico dello scrittore, se si pensa che queste deviazioni nominali risalgono ai suoi vent’anni, quando nel 1921, pubblicando due racconti nelle “Cronache d’Attualità” di Anton Giulio Bragaglia, non si firma col suo verso nome (Giuseppe Papa), ma col nom de plume che poi manterrà tutta la vita. Gualtieri di San Lazzaro era nato a Catania nel 1904 e morì a Parigi nel 1974. Una vita attivissima, la sua. Una vita aperta, intelligente, disponibile, che sarebbe il caso di definire “collettiva” per quante sono le relazioni generose, disinteressate e perché no, intransigenti, che egli intrattenne con tutta una serie di artisti di prima grandezza, da Picasso a Kandinsky, da Matisse a De Chirico a Dubuffet, da Arp a Klee, da Marino Marini a Magnelli, Mirò, Braque, e ancora, ancora…
Quando nel 1924 si stabilisce a Montparnasse, ancora vi aleggia l’ombra di Modigliani, scomparso nel 1920. stabilisce un rapporto di amicizia con Leopold Zborowsky, collezionista e mercante dell’artista livornese, che gli affida la direzione di una vivace rivista artistico-letteraria (“Chroniques du jour”): ma la loro collaborazione non sarà del tutto priva di spine.
L’attività di San Lazzaro è di una densità e di una larghezza di orizzonti davvero eccezionali. Come critico d’arte, collezionista e editore di monografie dedicate a tutta una serie di artisti di primissimo rango, egli dimostra una fortissima capacità sintetica e una coerenza indefettibile in ordine alla valutazione delle fisionomie che hanno caratterizzato nei modi più innovativi l’arte moderna e contemporanea in quel crogiuolo ardente di proposte e di realizzazioni che è stata Parigi, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, per poi cedere alla supremazia della super attrezzata civiltà americana, già prima dell’avvento sul mercato internazionale della Pop Art.
San Lazzaro non è solo un infaticabile e brillante promoter degli artisti e delle esperienze che ritiene onestamente da considerare come imprescindibili; è un vero e proprio “saggiatore” dotato di un fiuto straordinario per le situazioni maggiormente stimolanti e tese sul filo dei progetti più avanzati, indenni da agevoli subalternità ideo-stilistiche. Un fabbricante di ponti espressivi, un cucitore di rapporti, un ricercatore/valutatore dal fiuto straordinario: questo è Gualtieri di San Lazzaro. E è da dire che, al dilà dei meriti dell’operatore e del critico d’arte, che restano cospicui, come autore di un libro della vivida persistenza di Parigi era viva egli ha il pregio di aver trasfuso in prosa di romanzo di grande, attendibile affabilità stilistica le esperienze più intense – e non di rado drammatiche – del proprio mestiere, declinandole nell’orizzonte che dalla coda del primo giunge agli orrori del secondo conflitto mondiale, con al centro l’occupazione nazista di Parigi. E’ il crollo di un mondo e di un sistema di valori: ormai le Avanguardie possono essere definite (e almeno in parte archiviate) come “storiche” – e San Lazzaro può riunire in un libro intitolato Parigi era morta una serie di cronache di vita parigina amaramente realizzate fra il 1939 e il 1943.
La cifra stilistico-strutturale di Parigi era viva, che resta il suo libro più rappresentativo, è – tra memoria anche aneddotica e gioco di montaggio di infiniti excursus – per quanto possibile serena, almeno in parte depurata nei suoi accenti più agitati dal filtro della distanza. Il terremoto linguistico che le avanguardie hanno generato in letteratura non la tocca; ma certo, in questa discreta pacatezza non c’è nulla di rassicurante. Il metronomo di San Lazzaro oscilla tra lo sguardo dello storico e il piacere del compartecipe: cosicché anche il pettegolezzo finisce per assumere un sapore del tutto privo di malignità gratuita (valga per tutto la dura franchezza riservata a Giorgio De Chirico, sia sul versante umano che su quello della svolta artistica neoconservatrice, che appare un autentico tradimento delle grandi invenzioni “metafisiche”). Picasso, sempre detestato (e denigrato) dal pittore delle Muse inquietanti, resta per San Lazzaro l’assoluto campione di una libertà ricreata ogni giorno, sia sul piano esistenziale che su quello della ricerca artistica. Così, si direbbe in parallelo fondamentale, l’ammirata amicizia per Vasilij Kandinsky si pone come un epicentro di svariate completezze umane e espressive. Il nuovo anche più radicale, insomma, non turba ma affascina San Lazzaro: e forse la sola difesa che non gli sia mai venuta meno di fronte alle più perfide ambiguità della vita, è l’occultamento del proprio nome, che in Parigi era viva riserva al protagonista quello di Silvio. Osserva in proposito Nicoletti: “Probabilmente, l’espediente del camuffamento dietro pseudonimo e della narrazione in terza persona si giustificano con la possibilità di mantenere un distacco, almeno apparente, dagli episodi rievocati. Non si può escludere che sia la prossimità cronologica dell’uscita del libro agli eventi narrati, oltre alla presenza in vita di molti dei personaggi coinvolti, a spingerlo verso la scelta di una finzione letteraria”. Ma non pare un particolare trascurabile che gli esordi pubblicistici del giovanissimo San Lazzaro avvengano sotto il segno della letteratura; e ancor più rivelatore è il fatto che i suoi commerci con la scrittura inventiva non siano mai venuti meno, pur all’interno della preponderante attività di “mancato” mercante di quadri e di critico d’arte. In realtà, in lui lo scrittore in proprio convive con l’analista e l’autore di memorie fino alla fine. Ne sono prova due testi narrativi (L’aglio e la rosa e L’uomo meraviglioso, entrambi usciti nel 1971 presso le milanesi Edizioni del Naviglio), nel primo dei quali si legge – insieme chiosa e dichiarazione di poetica -: “Credo che sul letto di morte esalare l’ultimo respiro sia buttar fuori dal proprio ‘io’ tutta la vita, fare in sé il vuoto supremo. E se si scrive di sé, come mi sono proposto, debbo farlo considerandomi proprio in punto di morte. Scrivere di sé: quale tremenda agonia per pervenire al vuoto, restituendoci all’infinito, all’immensità dello spazio in cui, come pesci in un acquario, non facciamo che girare e rigirare intorno a noi stessi. Ma ci riuscirò? E Marcel Proust, potrei giurare che ci sia riuscito, pur avendo scritto, lui, un capolavoro?”.
Data recensione: 01/04/2012
Testata Giornalistica: Le Reti di Dedalus
Autore: Mario Lunetta