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Sentite questi nomi: Enrichetta Caracciolo, Anton Giulio Barrilli, Michele Lessona, Francesco Mastriani, Salvatore Farina, Umberto Notari, Mario Mariani, Giorgio Pini, Guido Milanesi...Chi li ha mai sentiti pronunciare alzi la mano. Chi ha mai

Autori molto letti in passato oggi ignoti, scrittori celebri amati per titoli minori. Ieri come oggi l’equazione «grandi numeri scarsa qualità» non è automatica. Ma il vero giudice è il tempo

Notari e Pini chi li ricorda? E Pitigrilli, Gotta...? Eppure ogni tanto nasce un Pinocchio

Sentite questi nomi: Enrichetta Caracciolo, Anton Giulio Barrilli, Michele Lessona, Francesco Mastriani, Salvatore Farina, Umberto Notari, Mario Mariani, Giorgio Pini, Guido Milanesi...Chi li ha mai sentiti pronunciare alzi la mano. Chi ha mai letto un loro libro, faccia un cenno. Eppure, per quasi un secolo, sono stati tra i nomi più noti in ambito letterario, quelli che sbancavano il mercato e facevano impazzire le folle di lettori e lettrici. Certo, al loro fianco non mancano Edmondo De Amicis e Carlo Collodi, Gabriele d’Annunzio e Emilio Salgari, ma gli scrittori che ancora percepiamo come capisaldi della letteratura sono in netta minoranza nel libro di Michele Giocondi, I bestseller italiani 1861-1946.
Sono questioni interessanti quelle che stanno dietro a una rassegna del genere, fatta di titoli oggi per lo più sconosciuti cui corrispondono decine di migliaia di copie vendute. La prima è: c’è una costante che, al di là dei singoli casi, accomuna nel tempo i libri di successo? La risposta non può che essere tautologica: nel migliore dei casi è la capacità (a volte geniale) di cogliere desideri, fantasie, atmosfere del proprio tempo; nel peggiore è l’abilità nell’assecondare i sentimenti banali del pubblico (e il consenso dell’autore genera, moltiplicandolo, il consenso del lettore). Nulla di disprezzabile, però: un libro recente del ricercatore francese Frédéric Martel, tradotto da Feltrinelli, invita a non sottovalutare la qualità dei prodotti mainstream. Non è detto che i grandi numeri siano sintomo di un valore mediocre, sarà il tempo a giudicare. Anche il tempo però è una variabile capricciosa. L’esempio di Verga può essere utile: lo scrittore siciliano si impose presso i contemporanei nel 1871 con Storia di una capinera, che fino alla fine del secolo aveva venduto la cifra rispettabile (allora) di 24mila copie con ristampe crescenti nei primi decenni del Novecento. Ma i suoi capolavori, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, fecero «fiasco pieno e completo», come egli stesso avrebbe ammesso. Soltanto in epoca neorealista, diversi decenni dopo la loro uscita, avrebbero vissuto una vera diffusione popolare al punto da diventare presto dei «classici» a uso scolastico, mentre le altre opere verghiane, tra cui i bestseller della prima ora, sarebbero precipitate nelle quotazioni del pubblico.
Seconda questione cruciale: che rapporto c’è tra valore commerciale e valore letterario? Faccenda spinosa che si potrebbe declinare diversamente: quale rapporto tra accoglienza del lettore e accoglienza della critica? Tradizionalmente è vero che la critica italiana tende a snobbare i libri di successo. Diceva Umberto Eco che quando il suo primo romanzo raggiunse le 200 mila copie, qualche critico, prima entusiasta, cominciò a cambiare parere. Di solito, l’autore stroncato reagisce insinuando un sospetto facile facile: l’invidia del recensore, quasi che non si potesse scrivere «anche per amore della letteratura», come obiettò Giovanni Raboni a Oreste Del Buono che gli rimproverò di aver paragonato Va’ dove ti porta il cuore a un Harmony, spinto dall’odio pregiudiziale per il successo. Fatto sta che spesso e volentieri la distanza tra giudizio critico e gusto del lettore è abissale. Ma non sempre: I misteri del chiostro napoletano della Caracciolo, che narrava le disavventure di una giovane costretta a indossare l’abito monastico, piacquero persino a Settembrini e a Manzoni. E i romanzi d’amore di Barrilli non lasciarono indifferente Carducci, mentre Liala divenne sinonimo di superficialità e banale ripetizione fino a trasformarsi in eponimo (si ricorderà l’accusa che il Gruppo 63 rivolse a Cassola e Bassani, «Liale della letteratura italiana»). Solo nel dopoguerra si arrivo, in molti casi, a un equilibrio miracoloso tra gradimento del pubblico e favore critico; si pensi a successi come Cristo si è fermato a Eboli, al Gattopardo, alla Trilogia di Calvino, ai romanzi di Sciascia. Numeri e qualità.
Ma già prima era capitato che critici e pubblico si trovassero in perfetta sintonia, come per Achille Campanile (ampiamente rivalutato da recensori diversi, quali Carlo Bo, Umberto Eco, Enzo Siciliano) oppure per Cesare Zavattini, apprezzato a più livelli. Per non dire del successo dei successi, Pinocchio, che ebbe anche un consenso critico senza limiti, da Croce a Pancrazi a Manganelli e Fruttero. Oggi la forbice si è allargata. Le classifiche non fanno che alimentare gratuitamente se stesse e rappresentare un volano che moltiplica i successi. Anche se sempre più si affaccia sulla scena una critica ben disposta ad allinearsi (per convinzione o per snobismo al contrario?) agli umori delle classifiche e insensibile ai confini tra letteratura e paraletteratura: atteggiamenti che, con dosi massicce di ironia postmoderna, vorrebbero apparire anticonvenzionali finendo invece per assecondare il conformismo del mainstream. Giocondi, che nel ’73 si laureò con Luigi Baldacci sulla letteratura di consumo durante il fascismo, fa presente come di alcuni bestseller tutt’altro che spregevoli si sia persa la memoria. E cita, per esempio, l’elegante romanzo sentimentale Mater Dolorosa di Gerolamo Rovetta, pubblicato nel 1882 e più volte ristampato, prima di cadere in una zona d’ombra dopo la Seconda guerra mondiale. Sotto il regime, la letteratura di consumo si racchiude in cinque o sei filoni che a volte proseguono ben oltre il fascismo e talvolta arrivano fino a noi: il romantico alla Salvator Gotta, il daveroniano (Guido Da Verona, il «d’Annunzio delle dattilografie e delle manicure», fu il più amato); il pornografico (in vent’anni Pitigrilli con otto titoli osé riusci a raggiungere i due milioni di tiratura); il realistico-borghese di Lucio D’Ambra e Guido Milanesi (che superano il milione di copie); l’umoristico di Campanile e Zavattini; l’eroico in chiave mussoliniana con le biografie di Pini e della Sarfatti. C’è un filone di sentimentalismo femminile (non solo Liala, ma anche Carla Prosperi e, con risultati ben più notevoli, Alba de Céspedes), che ancora sopravvive felicemente: filone a cui oggi, come ieri, non sono estranei, ovviamente, autori di genere maschile come Fabio Volo. Ci sono costanti e varianti: un tempo era la poesia a superare nettamente la narrativa nel gradimento popolare.
Certo, ieri gli autori seriali non incassavano quanto oggi. È lo stesso Giocondi a sottolineare più volte la precaria situazione contrattuale che portò sul lastrico il povero Salgari, il quale oggi sarebbe milionario. Il pagamento mensile o a forfait fu la sua disgrazia e finì stritolato dalle richieste degli editori. Nel 1963 si calcolò che in quell’anno il padre di Sandokan avrebbe guadagnato cento milioni netti (allora, per intenderci, un appartamento valeva tra i 5 e i 10 milioni). De Amicis era stato più fortunato e grazie a un contratto a percentuale, impostogli per altro da Treves, poté disporre di cifre favolose (dopo il lancio del 15 ottobre 1886, Cuore fu venduto a un ritmo di mille copie al giorno).
Può impressionare solo gli ingenui il fatto che già nell’Ottocento le strategie di marketing editoriale erano ben praticate, perché vendere è sempre stato un obiettivo primario. L’editore milanese Angelo Sommaruga fu anche un abile pubblicitario e promotore: «Attraverso un raffinato sistema di marketing, simile a quello di oggi, riusci ad attrarre molti autori, mettendo in allarme persino Treves», ricorda Giocondi.
Data recensione: 04/03/2012
Testata Giornalistica: Corriere della Sera
Autore: Paolo Di Stefano