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La migrazione e il trasferimento in paesi diversi da quelli d’origine aiutano non solo l’integrazione ma anche a estirpare pratiche tradizionali violente, come le mutilazioni genitali femminili

Fra le migranti di seconda generazione incidenza del fenomeno inferiore di un terzo rispetto alle madri. In crescita le donne contrarie a mutilazioni e attive nella promozione di campagne di sensibilizzazione per le concittadine

La migrazione e il trasferimento in paesi diversi da quelli d’origine aiutano non solo l’integrazione ma anche a estirpare pratiche tradizionali violente, come le mutilazioni genitali femminili. Non a caso sono in crescita le migranti che non solo si oppongono alla clitoridectomia ma che desiderano cancellare i segni del trauma subito attraverso un procedimento di deinfibulazione. E che promuovono campagne di sensibilizzazione e informazione rivolte alle loro concittadine, anche attraverso convegni, dibattiti pubblici e attività di dialogo e cooperazione con i paesi d’origine. È quanto emerge dal saggio “Mutilazioni genitali femminili: quando l’etica s’incontra/scontra con la cultura e la religione” dell’antropologa Annamaria Fantauzzi, contenuto nel volume appena uscito a cura di Simona Scotti e Margarita Zàrate Vidal “Etica pubblica e religioni”. “La mutilazione persiste nelle migranti di prima generazione come adesione a una tradizione atavica”, scrive la studiosa ma “nelle loro figlie e nipoti viene vissuta e considerata come una forma di violenza e di invasione nella propria intimità, verso la quale lottare e difendersi”. Il dato di partenza dell’analisi è l’indagine svolta nel 2009 dall’Istituto Piepoli per il ministero delle Pari opportunità sulla diffusione in Italia del fenomeno delle mutilazioni genitali. Dallo studio emergeva come mediamente lo scarto tra madri provenienti dai paesi “a tradizione escissoria” (Guinea, Egitto, Gibuti e Somalia in particolare) e figlie vittime del fenomeno sia mediamente circa il 30 per cento in meno rispetto (per l’esattezza il 28,6 per cento in meno). Sebbene in calo, persiste tuttavia la realtà di donne fortemente legate alla tradizione di origine che vogliono praticare lo stesso atto, spesso ricevuto su se stesse, anche a figlie o nipoti e che, pur di farlo, ricorrono a strumenti rudimentali in contesti domestici con gravi conseguenze di profilassi e psicosomatici. Non a caso l’indagine dell’Istituto Piepoli – che su 110 mila donne africane soggiornanti in italia stimare in circa 35 mila quelle che hanno subito mutilazioni genitali prima o durante il loro soggiorno – calcolava in circa un migliaio le bambine e under 17 a rischio.
Tuttavia non mancano i segni che fanno ben sperare, come quando nel 2003 il ginecologo originario della Somalia Abdulcadir Omar Hussen propose il cosiddetto “rituale simbolico alternativo”: una puntura sul clitoride in anestesia locale con la fuoriuscita di una goccia di sangue per salvare il rituale ma senza provocare dolore né danni. L’iniziativa, argomenta la ricercatrice, fu infatti stata bloccata da un gruppo di donne immigrate da vari paesi, soprattutto africani e latino-americani, che non volevano retrocedere davanti al principio secondo cui non si può legittimare ciò che dovrebbe essere del tutto contrastato e abolito.
Data recensione: 22/08/2011
Testata Giornalistica: Il Velino
Autore: ––