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“Un libro dell’io multiformemente smembrato e dilaniato”, Robert Walser definiva il suo. È Enrico Testa, nel suo intervento al convegno campaniano di Macerata del 2002 i cui atti sono pubblicati da Quodlibet per le cure di Marcello Verdenelli

“Un libro dell’io multiformemente smembrato e dilaniato”, Robert Walser definiva il suo. È Enrico Testa, nel suo intervento al convegno campaniano di Macerata del 2002 i cui atti sono pubblicati da Quodlibet per le cure di Marcello Verdenelli, a svolgere il parallelo fra la traiettoria dello scrittore svizzero e quella del poeta di Marradi: anche al vagabondare di Campana si presta la definizione di Lust zum Wandern di Walser, “fondata su una relazione non strumentale con il mondo e tesa ad un tipo di scrittura perennemente dissociata tra occasioni e spunti diversi”. La prima versione della Passeggiata viene scritta da Walser nel 1916: due anni dopo i Canti Orfici.
La “generale percezione dromomaniacale del mondo” che per Testa lo accomuna a Walser (come, nel mito d’elezione, a Rimbaud) è al centro dell’ultima emergenza di ricerche su Campana: le quali negli ultimi anni si susseguono a un ritmo tale da farci riflettere sulla paradossale attualità di questa presenza (anche a voler prescindere dalla mitobiografia kitsch del cartolinesco film di Michele Placido): come indicando che di quell’estremo che fu Campana si avverte un furioso bisogno postumo. Contribuisce a dimostrarlo in forma analitica (negli atti quasi un libro nel libro, per ampiezza e profondità) il saggio di Luigi Surdich sulla presenza di Campana nella poesia del Novecento: da Sbarbaro a Caproni, da Montale a Luzi, Sereni e Sanguineti. Ed è significativo che il volume sia incorniciato da omaggi in versi di poeti d’oggi (fra i quali forse gli ultimi, incantevoli, di una persona incantevole che da un annetto non c’è più, Elio Fiore) e dalla sovraccoperta di Enzo Cucchi, nella quale una scritta brut si replica (campanianamente…) in un’eco incompleta: “CAMPANA CAMPA”. Come su un muro irredento: Campana lives…
A questo Campana ‘vivo’ è dedicato un libro curiosissimo – un vero oggetto di culto, esulta Emanuele Trevi nella prefazione, giunto ai torchi di Polistampa dopo annosa (campaniana…) circolazione esoterica – come quello di Giovanni Cenacchi. Un libro accompagnato (oltre che da un inutile cd-rom) da una mappa dell’Appennino tosco-romagnolo sul risvolto di copertina. Come a mettere sin dalla soglia sull’avviso: questo non è un saggio come gli altri. Infatti, come dice il sottotitolo, a un ampio saggio sul mito del cammino e in particolare su quello dell’ascesa in montagna, nei Canti Orfici, si affiancano “dieci passeggiate” che spiegano nel dettaglio come seguire le orme del poeta. Non c’è nulla di impressionistico in quest’atteggiamento, dal momento che Cenacchi ne indica con precisione le radici: “Campana visse l’insegnamento di Nietzsche come un’etica, una regola di comportamento che non ammetteva la consueta innocuità del sapere, la sua incapacità a dare vita e morte al soggetto della conoscenza”.
Sfogliando il ricco volume maceratese ci si accorge che anche per uno degli interpreti campaniani oggi più stimolanti, Marco Antonio Bazzocchi, Nietzsche ebbe fra le altre proprio questa funzione: Zarathustra si definisce “un viandante e un valicatore di monti”. Come dice Vittorio Coletti, il paesaggio di Campana è “mosso, circolare, convulso, al limite dell’esplosione delle figure”: il modo sussultorio di vedere il paesaggio proprio di chi cammina entro di esso. C’è l’influsso del cinema, puntualizza Pedro Luis Ladrón de Guevara Mellado, ma il saggio più originale è quello di Carlo Vecce, che analizza un’icona proiettiva campaniana come Leonardo da Vinci, altro grande interprete di montagne e poeta delle rocce. C’è di mezzo il mito decadente di Leonardo di Pater, d’Annunzio e dintorni, certo. Ma l’ipotesi di Vecce è che Campana possa essersi procurate le riproduzioni del Codice Leicester, pubblicate nel 1909, dove si leggono descrizioni della Verna e della Val di Lamona.
Cioè due delle mete delle “passeggiate” di Cenacchi. Il quale spiega come Campana sostituisca “un processo di identificazione” a quello della “rappresentazione”. Non solo egli s’identifica con la propria opera (per questo lo turba tanto che essa venga smarrita), ma pretende che anche i lettori si comportino allo stesso modo: “in tutta la sua opera Dino Campana […] ci chiede di essere come lui”. A ben pensarci è proprio qui la chiave del perdurante ‘mito’ di Campana. È nella misura della sua effettiva impercorribilità reale che il suo cammino ci appare tanto seducente. Lo percorriamo, sì, ma solo in forma vicaria: perché confitti, per parte nostra, nell’esistenza meno poetica e ‘orfica’ che si possa immaginare.
Cenacchi, si capisce, a quest’interdetto non s’arrende. Per fortuna non ci chiede di intrattenere coll’universo femminile, con la politica o con la nostra psiche, rapporti simili a quelli che ebbe Campana. Ma almeno la sua Lust zum Wandern, quella, non abbiamo alibi per non mutuarla. Premesso che personalmente neppure nella più sfrenata fantasia di identificazione mi avventurerei nelle (faticosissime) pratiche dettate da Cenacchi, devo però ammettere che la seconda parte del suo libro è forse ancora più affascinante della prima. Incorniciate da foto a colori dello stesso autore-escursionista, alcune delle sue ‘visite’ – come quella al buen retiro di Dino e Sibilla, la Casetta di Tiara – si fanno leggere, anche più che come ‘collaudi’ dei testi (alcuni dei quali ricevono, dal confronto coi paesaggi ‘reali’, credibili reinterpretazioni), come nuove, indipendenti esperienze ‘orfiche’. Come quando s’imbatte nella cosiddetta “casa delle scarpe”, relitto d’abituro che una volta doveva essere di un calzolaio. Il cortocircuito fra l’oggetto della percezione e il veicolo che ha condotto a esperirla – le scarpe – è forse scontato, ma retoricamente irresistibile (ha buon gioco Trevi ad alludere alle scarpe di Van Gogh che commuovevano Heidegger…).
Non si temano, però, eccessi di sospirosità esperienziale. Ogni qual volta la corda lirica si tende oltre un certo grado, rischiando di scivolare nel crepaccio del grottesco involontario, Cenacchi sa anche aggrapparsi al moschettone del sarcasmo (pur esso, del resto, ben campaniano). Tutt’altro che ingenua, insomma, la sua voce ci accompagna tanto nella più magata stupefazione che nello stropicciarci gli occhi al momento del risveglio. Tanto che, all’atto del congedo, non si riesce a reprimere un residuo d’amarezza: nel restare così irrimediabilmente diversi da lui.
Data recensione: 01/06/2004
Testata Giornalistica: L’Indice dei Libri del Mese
Autore: Andrea Cortellessa