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Due temi, più di altri, sono difficili da affrontare per chi scrive: l’amore e la morte. Altissimo è il rischio del confronto con tutti coloro che, in precedenza, si sono cimentati con questi argomenti, ma ancora più alta è la probabilità di

Inserito il 12 agosto 2010 alle 18:33:00 da webmaster. IT - Biblioteca

(Mauro Pagliai Editore, pagg.126, 11 euro) 

Due temi, più di altri, sono difficili da affrontare per chi scrive: l’amore e la morte. Altissimo è il rischio del confronto con tutti coloro che, in precedenza, si sono cimentati con questi argomenti, ma ancora più alta è la probabilità di incorrere nella banalità o nell’eccesso, oscillando, senza risolversi ad una scelta di parte, tra la tentazione drammaturgica e quella invece minimale. In questo romanzo breve, ma denso in ogni sua riga, Paolo Ciampi, fiorentino, giornalista e scrittore, affronta e vince una sfida doppiamente difficile, poiché non solo parla della morte, ma di una particolare morte che ognuno di noi porta dentro di sé come uno spartiacque definitivo che ridefinisce per sempre la nostra vita, ovvero la morte della madre. Una morte improvvisa, e dunque anche più devastante, perché giunta senza avvisaglie, senza segnali di alcun genere, come un terremoto che allunga la sua potente mano e stritola in pochi terribili istanti ogni apparente simulacro di normalità e, quindi, di sicurezza, annientando anni di consuetudini, equilibri, continuità e contiguità affettive, lasciandoci a contemplare increduli la voragine che mai più potremo colmare. Eppure questo non è un romanzo sulla morte, ma piuttosto sulle conseguenze, anche positive, della morte; non c’è traccia, in queste pagine, di eccesso alcuno, non per mancanza di pathos e di partecipazione emotiva, ma per una finissima scelta di vita prima ancora che di narrazione. Il dolore, che pure è profondo e lacerante, non si trasforma mai in grido scomposto, in manifestazione esteriore, in gesto tragico, ma diventa invece una implosione interiore che si salda con il pensiero, con l’intelligenza emotiva, e si fa desiderio di comprensione, motivo di ricerca, spinta incessante alla scomposizione e ricomposizione del passato attraverso il presente e dunque anche ad una prima ipotesi di un nuovo domani. La divisione in due parti di quest’opera disegna nettamente questo percorso. La prima parte, breve, concisa, asciutta, secca, racconta quella domenica come tante altre che di colpo viene sconvolta dalla morte inattesa, e la restituisce per ciò che è, un evento talmente enorme e sconvolgente che non si può afferrare subito, che ci lascia storditi e svuotati ma soprattutto incapaci di provare dolore. Perché il dolore è coscienza, è consapevolezza, è conoscenza, è soprattutto il riconoscimento di una perdita, di una paura, di un rivolgimento interiore che ci disassa dal nostro apparente equilibrio e ci toglie ogni appoggio materiale e morale, costringendoci a fluttuare nel vuoto di una dimensione atemporale che nell’immediato non siamo in grado di colmare di nuovi contenuti o di ricollocare nell’insieme delle nostre esperienze di vita con un nome che ci rassicuri. Questo accade nella seconda parte del libro, che è la cronaca fedele e straordinariamente autentica dei primi dieci giorni seguenti alla morte della madre, quando l’autore ci racconta – e queste pagine sono state scritte davvero allora – cosa accade dentro di lui, nella quotidiana mescolanza delle incombenze che la scomparsa di una persona costringe ad affrontare e del dolore che spinge il pensiero a ricercare la strada perduta, il senso che sfugge, la conoscenza che pure credevamo di avere. E’una lettera, e non poteva essere altrimenti, che il figlio scrive alla madre, ma non è un monologo come a prima vista si potrebbe pensare, perché la madre ha lasciato tracce importanti di sé che tornano a galla dopo la sua morte, e non sono solo ricordi, ma sono anche parole lasciate alla famiglia, una lettera al figlio scritta in anni lontani e mai conclusa, messaggi in segreteria telefonica, gesti quotidiani, oggetti che parlano il linguaggio della semplice presenza discreta – sono tutte impronte da seguire, su un sentiero impervio che ci sorprende su passaggi meno ovvi di quanto appaiano: la spesa al supermercato, la sosta dal fioraio, la lettura del biglietto di una sconosciuta vicina di casa, sono tappe importanti che costringono alla sosta ed aprono la via a nuove riflessioni. Non c’è traccia, in queste pagine, della tentazione agiografica, del santino post mortem che spesso intravediamo nel conformismo di certe commemorazioni filiali; forse, la secchezza antica di un fiorentino autentico non permette di cadere in queste trappole, o più probabilmente la spinta di una lucida intelligenza non concede simili lussi, poiché qui sia madre che figlio si rincontrano e si rileggono non solo nei ricordi dolci come le caramelle dell’infanzia, ma anche nelle rispettive debolezze, fragilità, paure, incomprensioni, che hanno segnato un rapporto non sempre facile e che, a tratti, vengono ripercorse anche con rabbia, l’umanissima rabbia che ci coglie di fronte a qualcosa che sappiamo di non poter più modificare, se non nel tentativo di metabolizzarlo dandogli un senso nuovo. E questo senso nuovo esiste, se davvero vogliamo trovarlo dentro di noi; è in una presenza che persiste seppure in forma mutata, è in una eredità di minuterie quotidiane, come le ricette da riscoprire cucinando, che ci fanno riconoscere che siamo ancora noi; è nei figli che crescono e sono nati da quello stesso albero che non è morto ma si è invece radicato più profondamente. Ma soprattutto è nella consapevolezza, raggiunta attraverso il dolore, di una nuova conoscenza dell’altro, di una ritrovata scelta affettiva non più imposta dal vivere vicini ma da una assenza fisica che ci ha costretti a rispondere a molte domande e ci ha portati a capire, infine, che nostra madre non l’abbiamo solo subita come una sorte del tutto casuale, ma l’abbiamo anche scelta e voluta come punto cardinale di un mondo emotivo che ci appartiene e ci apparterrà sempre, perché, come conclude l’autore: “ha ragione quel poeta: quello che dura è quello con cui si comincia”.

Chiara Boriosi
Data recensione: 12/08/2010
Testata Giornalistica: Libero Reporter
Autore: Chiara Boriosi