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L’associazione Trisomia 21 Onlus è stata fondata trent’anni fa a Firenze, per dare un sostegno alle persone affette da sindrome di Down e alle loro famiglie. Per celebrare il proprio trentennale e fare il punto sul lungo cammino percorso ha deciso di pubb

A trent’anni dalla sua nascita, l’associazione Trisomia 21 raccoglie racconti, testimonianze, riflessioni e anche molte belle sorprese  L’associazione Trisomia 21 Onlus è stata fondata trent’anni fa a Firenze, per dare un sostegno alle persone affette da sindrome di Down e alle loro famiglie. Per celebrare il proprio trentennale e fare il punto sul lungo cammino percorso ha deciso di pubblicare un libro che raccoglie storie, pensieri, riflessioni, appunti, lettere. È nato così il volume Chi lo legge questo libro? – Persone e sindrome di Down (polistampa, 125 pagine, 8 €) a cura di Emiliano Gucci. In questa pagina presentiamo appunto la bella introduzione del curatore, dal titolo Un libro come un tavolo, nel quale lo scrittore spiega l’incontro con l’associazione e la genesi di questo progetto. Nel proporvela non possiamo che accordarci al suo augurio finale, ovvero che leggendo le storie del libro si possa ridere di speranza.  La prima volta che entrai nelle stanze di Trisomia 21, e parlo dell’ormai “vecchia” sede di Borgo Pinti, percepii subito un’aria particolarmente frizzante. Non lo dico per piaggeria, anzi, a ripensarci adesso quel brulicare di energie forse mi inibì anche un po’: le pareti, le scrivanie e i mobili stracolmi, le foto e i disegni appesi ovunque, i lavori dei ragazzi, i colori, le persone e i ragazzi stessi che in quel momento affollavano gli spazi, tutto mi sembrò carico di energia appunto, di elettricità, tutto parlava di lavoro, fatica, divertimento, cose fatte e da fare insieme. Era un posto tremendamente vivo, ed ero lì proprio per un nuovo progetto che avrebbe coinvolto alcuni ragazzi dell’associazione. Fu in quell’occasione che li conobbi e che conobbi Antonella, l’attuale presidente, e poi Ivana, altre persone che lavorano con loro e poi altre ancora, che insieme a me avrebbero contribuito al laboratorio. Il progetto si fece (con Unicoop, e ne parliamo brevemente in appendice al libro) e mi sento proprio di dire che riuscì al meglio e che fu, in primo luogo per me, un’occasione preziosa per più di un motivo. Fu in uno di quei giorni che Antonella mi chiamò al cellulare. Sul momento pensai si trattasse di faccende relative al laboratorio, anche se le mie mansioni erano gestite da altri e non ci eravamo mai sentiti direttamente. Comunque sia mi sbagliavo, il tema era un altro. Mi spiegò che l’associazione Trisomia 21 compiva 30 anni e che per l’occasione le era venuto in mente di fare un libro.Mi disse che le sarebbe piaciuto lasciare qualcosa che fotografasse questo momento, ma che soprattutto raccontasse, attraverso le esperienze delle persone che l’hanno vissuta, la storia dell’associazione in questi anni, da dove è partita e dove è arrivata, dove potrà arrivare. E ancor di più le sarebbe piaciuto lasciare un libro utile ai genitori di domani, uno strumento capace di informare, raccontare verità, magari sciogliere qualche dubbio. Fin qui, per quanto mi riguardava, poco di strano, specie se con le frasi successive Antonella mi avesse domandato un consiglio su come pubblicare il libro, o una mano a risistemare il materiale. Le frasi successive, invece, non ci furono. Nel senso che ci furono eccome, ci incontrammo e cominciammo a parlarne e siamo arrivati fin qui, ma quello che lei aveva, in quel momento, in testa e nel cassetto, si esauriva con le parole che mi aveva già detto. Non esisteva mezzo foglio scritto, mezza traccia. Antonella voleva fare un libro, questo sapeva, nulla più. Allora da una parte pensai che fosse matta. Per aver chiamato me, che niente sapevo della Trisomia 21 come sindrome né tantomeno come associazione, che non sono né un genetista né un saggista ma un narratore part-time. Che mai avevo scritto una cosa “commissionata” e voluta da terzi ma soltanto raccontini che rovistano tra le mie budella, romanzi che raccontano personaggi sbagliati, pezzi di giornale che neanche si capiva bene cosa fossero. Cosa pensava potessi fare, io, per loro? D’altra parte, subito, pensai che dietro la sua telefonata che immagino istintiva, non troppo ponderata, ci fosse un’intuizione fortunata. Anzi che quel procedere contenesse l’unica chiave che sempre andrebbe usata, nell’avvicinarsi a certe materie: c’era bisogno di un libro, fatto un po’ su misura, e lei stava chiamando uno scrittore. Allo stesso modo avrebbe chiamato un falegname se le fosse servito un tavolo, un muratore nel caso il tetto si fosse sfondato, i vigili del fuoco per sedare un incendio. C’era una necessità, e piuttosto che barcamenarsi per raffazzonare una soluzione autogestita, si cercava la figura giusta per affrontarla al meglio. Ecco, ho creduto spesso che scrivere, e in questo caso mi riferisco ai trattati scientifici quanto alla narrativa, sia proprio questa cosa qua. Costruire qualcosa. Servire un bisogno. Colmare un vuoto, placare un’urgenza, rispondere a una domanda. Spesso da narratori lo facciamo privatamente, per una spinta che nasce dalle nostre interiora, o per catturare una storia che magari nasca piccola, minima, a sua volta privata, che poi corra il meraviglioso rischio di diventare universale, e raccontare molto più di quella singola vicenda. In questo caso si trattava invece della facoltà di un collettivo, un gruppo, un’associazione. Composta da anime differenti, da storie più o meno distanti nel tempo e nelle età, da più voci, che forse da sole non avrebbero potuto esprimersi al meglio. Appunti, testimonianze, confidenze che andavano raccolte. Voci che avevano bisogno del mezzo giusto per fuggire dal cassetto e parlare a tutti. Mi ritrovavo appunto, stavolta senza equivoci, nel ruolo che sempre cerco di interpretare scrivendo: potevo essere un veicolo, un artigiano della parola al servizio di una storia, anzi di molte storie da raccontare.Conoscevo già alcuni ragazzi dell’associazione e a questo punto cominciai a incontrare anche i genitori, a raccoglierne le voci, a cercare di farne parola scritta. A racchiudere quelle storie di vita reale, il dolore e le gioie, nelle pagine di questo libro. E andando avanti ho capito quanto fosse ulteriormente giusta la scelta di affidare a me, estraneo alle affettività di queste persone che tanto si frequentano nel quotidiano, le loro testimonianze. Sono convinto che per essere davvero utili certe storie debbano tenere lontano i tecnicismi scientifici quanto i patetismi sentimentali, gli eventuali protagonismi, l’istinto di elevare a sentenza universale la più o meno fortunata esperienza di un singolo. Sono convinto che certe storie di fede e devozione non potesse che raccoglierle al meglio una penna laica come la mia. Che certi tagli utili, necessari ma talvolta anche brutali, di ripetizioni e lungaggini, non potesse che deciderli una forbice estranea ai rapporti quotidiani, alla rete di amicizia e rispetto che lega certe persone. Ciò non vuol dire che io abbia svolto questo lavoro al meglio, anche se di certo ci ho provato; vuol dire che adesso ritengo giusta l’idea di affidare un progetto simile a un estraneo, pratico, ateo artigiano scrittore come me, uno che crede più nel lavoro che nell’arte, o che perlomeno li tiene sullo stesso piano. E vuol dire che se una telefonata come quella di Antonella mi raggiungesse domani, risponderei allo stesso modo, senza alcuna esitazione. Credo che questo libro non parli soltanto di ragazzi Down, famiglie con figli Down, problemi e possibilità nell’Italia degli anni Sessanta o in quella di adesso. Credo che questo libro parli soprattutto di coraggio e di amore per la vita. A me quelle raccolte sembrano storie di speranza, di cocciutaggine, che ci ricordano quanto può fare l’essere umano quando la spinta interiore è forte, quando a chiamare sono gli affetti più cari, i sentimenti più profondi. Quando si difende, ci si batte, si scavano strade e trincee per le persone che amiamo, magari i nostri figli. Allora si abbattono le montagne, si prosciugano gli oceani. E poi credo che questo libro apra nuove finestre alle normali concezioni di gioia di chi questa vita la percorre di fretta, a volte sbadatamente, a volte rincorrendo ricchezze diverse, a volte senza neanche sapere perché. Ecco, credo che queste storie possano accendere luci alternative per chi ha la pazienza di fermarsi un attimo ad ascoltarle, insomma leggerle, magari capirle. Qua dentro s’incontra un’umanità talvolta percossa e offesa dall’umanità stessa, eppure invincibile, capace di sobbarcarsi ogni patema, di godere gioie esclusive, di gridare la speranza di tutti. Anzi capace di dire la speranza, di sussurrarla, non di gridarla.Anzi capace di sorridere, di speranza, e a libro finito molti concorderanno con questa precisazione.
Data recensione: 29/09/2009
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti