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Oltre ad essere riconosciuto come uno dei pittori più interessanti del Novecento italiano, Lorenzo Viani (Viareggio, 1882 – Ostia, 2 novembre 1936) fu anche un prolifico letterato. Insieme alle opere di narrativa si dedicò ad una notevole pubblicistica sui temi dell’arte e della cultura figurativa in generale. Di seguito proponiamo un articolo restato quasi sconosciuto, testimonianza del suo immutabile sentimento di nostalgia protettiva per la Vecchia Viareggio, tratto da un dattiloscritto originale, fornito dai familiari dell’artista a Rodolfo Fini, e pubblicato come inedito su La Nazione del 2 dicembre 1966 (pp. 6-7), in occasione del trentesimo anniversario della morte del maestro. L’articolo, riferibile agli anni 1932-33, fa oggi parte della silloge Lorenzo Viani - Scritti e battaglie d’arte curata da Marcello Ciccuto ed Enrico Lorenzetti da poco uscita per Polistampa (409 pagine, 25 €). La raccolta contiene oltre un centinaio di scritti e costituisce ad oggi il corpus più ampio sull’opera saggistica dell’artista in tema di arte. Un quadro indispensabile per chi voglia comprendere a fondo la figura poliedrica e vulcanica dell’artista viareggino.Sulla piazzetta dell’olmo, nodo stradale della vecchia Viareggio, l’olmo non c’è più, né coi turbini tenzona. Piccola piazzetta con la chiesina in angolo che si apre al culto soltanto il giovedì santo per la visita dei sepolcri, e una “veglietta” in cui si veglia e si balla ad un tiro di schioppo dai passaggi a livello, oggi inchiavardati perché su di essi zampa coi piedi elefantini, un cavalcavia lungo quanto la fame (il cavalcavia dei sospiri pei pedoni) che per ridursi nel centro debbono fare la spola tra i ruderi dell’antica torre della Matilda e il basamento della nuova. La vecchia Viareggio per prendere contatto con la sua figlia legittima, la Viareggio nuova, deve fare lunga penitenza, e per vedere il corso mascherato, nato anche quello nei suoi borghi desolati dovrà invidiare le ali alle mosche. Scomparso anche dalla piazzetta dell’olmo, “Radicchio”un vecchio vetturino che ai tempi dei tempi impaludava di coperte vistose le due brenne che aveva e le portava al corso mascherato cavalcando la più bizzosa. E scomparsi i trascurati “zechite” e il “Pretore”, il primo assiso sempre su di una panchetta in piazza dell’olmo e il secondo seduto su di un carretto in cui stava grave come Pilato, sempre fermo in piazza Pacini. A quei tempi, non usavano i grandi carri, né le maschere isolate; allora era tutto un bailamme di carrozze infioccate e di mascherotti grotteschi dipinti nel viso con l’unto della padella o col bianchetto che soleva darsi alle scarpe di sugatto. Quelli che non volevano aggrottercarsi il viso con del bitume colorato prendevano un testone di carta pesta a nolo dai sottobanchi delle “Billet”, le più antiche noleggiatrici di attrezzi carnevaleschi. I testoni erano di ciuco, d’orso, di bove, di lupo, di coccodrillo, di cane. Come era strano vedere un ometto, un impiegatuccio vestito di regatino con un cravattino di velluto, con un paio di scarpette di pelle bazzana, il quale si era messo sul capo, come un elmo, una testa di lupo che gl’inghiottiva del tutto la sua, scialba e mortificata. L’impiegatuccio si industriava di imitare l’urlo del lupo e s’udiva invece il miagolio di un gatto a cui sia rimasta la coda tra l’uscio e il muro. Qualche scavezzacollo si poneva sul capo il testone di un ciuco a orecchi pendenti come le foglie dei cavoli quando hanno sentito i primi brezzoni dell’inverno e imitava, con un cartoccio in bocca, il raglio del paziente animale e talvolta tirava anche dei calci a gente di pari suo che con dei ritagli e di trucioli si erano fatti il manto di una scimmia e camminavano carponi come i quadrumani. Nel trambusto e nel pigia pigia, era divertente udire per esempio un asino che dava del codardo a un lupo,comeai tempi degli animali parlanti, e asino e lupo azzuffarsi e pestarsi fino a che non correva una scimmia a dividerli. A quei tempi non usava il concorso della canzonetta ufficiale, ognuno cantava la sua che improvvisava a seconda dell’estro e del vino che aveva tracannato. La banda comunale faceva servizio sotto il grande platano centrato nella piazza Alessandro Manzoni, quel piazzoncino che è davanti al palazzo comunale comunemente detta “piazza del mirto”. Uno dei primi carri che fece l’ingresso trionfale nella via Regia, da cui presumibilmente è derivato il nome di Viareggio, fu un carro autentico da contadini, a due ruote con la forca confitta sul giogo a cui erano sacrificati due bovi dalle muraghe infioccate di rossi pendenti, una specie di carro di tespi (quello antico s’intende) che trasportava una botte capace di una diecina di barili, mezzo pieno di vino padronale, una diecina di bifolchi sbottavano con dei boccali e si abbottacciavano il corpo di vino cantando una certa loro laude al padrone: Evviva il padron Evviva il padron che ci ha dato del vin bon. La barbarica canzonetta era accordata con imbuti e pivere e la botte percossa con un bacchio faceva da gran cassa. Il carro apparso improvvisamente dalla campagna sulla piazzetta dell’olmo poté fare in pace tutta la via Regia, fino al piazzoncino Pacini, dove le carrozze, le persone e i carri, retrocedevano per ritornare in piazzetta dell’olmo, ma al ritorno, asini, orsi, coccodrilli, e cani (testoni di cartone animati da bevitori di prima potabilità) dettero l’assalto al carro e i bifolchi dovettero scendere a patti perché la botte minacciava di essere sfondata. Una immascherata che rimase per qualche tempo memorabile – una immascherata equestre si potrebbe dire se la cavalcatura non fosse stata un asino grigio – fu quella che s’intitolò “la vecchia Viareggio”. Una vecchia decrepita con dei capelli di stoppa, con delle rughe fonde un dito,con gli occhi spiritati e senza denti sotto cui si nascondeva un crudele nemico della acqua potabile che accordato da cembali e copertelle di latta tolte di sulle pentole, cantava con una voce da orco una sua canzonetta spiritata: Se passi da casa mia t’aizzo il miccio e se ti vuoi far la barba io te la faccio. E nel dir così sfoderava un rasoione di legno e calciava nel costato il povero ciuco scarnato e pieno di guidaleschi, per aizzarlo, come se fosse stato un cane mordace nella folla dei marciapiedi. C’erano anche le immascherature civiline civiline, erano i tempi in cui le ragazze vestivano come si veggono oggi nei dipinti di Giovanni Boldini o di Silvestro Lega: lunghe sottane coi felpati della stoffa medesima, goletti alti fino a dar leva agli orecchi, e le maniche tanto lunghe che il merletto terminale ingollava quasi del tutto le manine di cera, sul capo portavano delle larghe pamele di nastri di seta, e in piedi le scarpette di seta coi tacchi a pero. Questo tipo di ragazze apparivano al corso su delle londrine imbottite ed avevano sul viso innocente dei mezzi mascherini alla veneziana, e sedevano una di qua e una di là dalla madre, che per non far riconoscere subito le figlie, si era occultata entro un domino nero che a toccarlo pareva dovesse tingere e, la malfidata bautta, ogni tanto spronava di corsa il vetturale che s’era messo sul capo una specie di pentolo affumicato. Queste vetture che transitavano di sotto ai terrazzi dei palazzi buoni erano messe sotto un fuoco di coccole di ginepro e confettini gessati, e quando passavano di sotto alle finestre della case così e così, erano mitragliate da raffiche di granturco sgranato. Le autorità, il sindaco, i consiglieri, la giunta e le rispettive famiglie con quelle del cursore del camarlingo dello speziale e del cerusico si raccoglievano nella loggia del palazzo della sovrana (anche oggi ariosa sede del comune) una loggia sfogata, altissima, tutta sostenuta da colonne di blocco, fiorite di capitelli coi riccioli all’imperiale, poggiate su dei dadi di marmo collegati da una balaustrata che pareva d’avorio. Tutta quella gente altolocata gesticolava con la discrezione dei piccioni in gabbia. Su certi cappelli tanto lustrenti che parevano di lamiera verniciata a fuoco, le granturcate ci tamburellavano sopra come la grandine su un vetro. Tutta quella gente altolocata non poteva rispondere alla gragnola aureata con i fagiuoli bianchi e rossi che servivano per le votazioni consiliari e dovevano controbattere il mitragliamento con delle caramelle saccarinate che richiamavano sotto il verone municipale una turba di ragazzi scavezzati che, per i bozzati della facciata, salivano fino sulla terrazza per chiappare a volo i dolciumi. Sull’imbrunire gli animali utili all’uomo, i bovi aggiogati al carro, i cavalli attaccati alle carrozze, gli asini col basto, portavano al loro domicilio i bifolchi, gli automedonti e i cavalcatori, senza chiamata di briglia o di sperone, ché automedonti, bifolchi e cavalieri erano come nel pallone dal tanto vino tracannato. Rincasavano anche quegli uomini che avevano preso a nolo i testoni di cartone, ed era curioso ascoltare il dialogo tra un ciuco e un orso e tra un coccodrillo e un cane. –Silenzio che siamo vicini a casa. E s’udiva la voce della moglie di quello immascherato a orso che urlava, angosciata quasi, ai casigliani: -L’ha veduto nessuno oggi il mio marito? -Era sul corso immascherato da orso. -A orso? Appena che viene gli attacco la pelle a un gancio.  
Data recensione: 08/09/2009
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti