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Giovanni Buono (o Bono) da Mantova, detto Zanebono, è un personaggio realmente vissuto tra il 1168 e il 1249. Contemporaneo di San Francesco, San Domenico, Sant’ Antonio di Padova: periodo di grande fermento

Giovanni Buono (o Bono) da Mantova, detto Zanebono, è un personaggio realmente vissuto tra il 1168 e il 1249. Contemporaneo di San Francesco, San Domenico, Sant’ Antonio di Padova: periodo di grande fermento religioso, di movimenti ereticali (per citare il più importante ricordiamo i Catari, di cui si parla anche in questo testo). Non era un chierico, ma un laico. Dalle testimonianze del processo di beatificazione (che è durato molti anni, dal 1251-54: furono sentiti 232 testimoni) risulta che non era in grado né di leggere né di scrivere. Sapeva però recitare, il Pater noster, il Credo, il salmo Miserere.
Un libro molto particolare questo di Regoliosi, che ci propone (come recita il sottotitolo, che è molto importante): “Libere variazioni intorno alla leggenda di Giovanni Buono da Mantova, giullare e santo”. L’autore lo immagina novizio in convento fino a vent’anni, poi giullare in giro per il mondo fino a quaranta, infine, ritornato al convento, monaco in odore di santità. In realtà Zanebono è stato prima giullare (fino ai quarant’anni) e poi “santo” (dopo la conversione alla vita eremitica, il ripudio della vita precedente e la fondazione dell’ordine degli Zamboniti). Sarà poi la Chiesa a proclamarlo Beato.
Ma l’autore (con finzione narrativa) immagina le due vite di Giovanni Bono come interconnesse, e la sua vicenda esistenziale tutta giocata sulla contraddizione, sull’inconciliabilità delle due vite, tra “spettacoli di piazza e pause di silenzio contemplativo”. Una messa in scena estremamente attuale, soprattutto per quel che riguarda la dicotomia legata alla “dialettica tra arte e istituzione”, tra individuo e collettività.
Devo dire che mi è piaciuto perché gli autori che io amo, come il Petrarca, presentano questo dissidio, questa dicotomia, questa frattura, ed è un tema di grande modernità.
A p. 33 l’autore scrive: “tra il XIII e il XIV secolo molti monaci abbandonarono il convento per farsi giullari ed altrettanti giullari lasciarono la loro vita vagabonda per indossare il saio” e si chiede: “Che cosa può esservi in comune tra un monaco e un giullare?” La domanda, riportata ad oggi e tradotta in termini di psicologia junghiana, potrebbe essere: come conciliare l’atteggiamento introverso e quello estroverso?
Ma pure (come accennato in quarta di copertina) la tensione tra l’io e il tu, la dialettica tra creatività e conformismo, tra individuo e comunità, tra introspezione e azione nel mondo, della lotta tra energia vitale e pulsione di morte.
Il testo si propone in “libere variazioni” dove prosa e poesia si intrecciano a formare una sorta di percorso esistenziale del protagonista, ma dove anche, spesso, protagonista e autore hanno la stessa voce. Una voce che, dal punto di vista letterario, spazia dalla forma poetica pura, vicina anche a certe cadenze che ricordano un certo ermetismo (nelle pause, nel ritmo, nell’implorazione sospesa ..), al dettato discorsivo della prosa e del testo teatrale. Nella lettura, pagina dopo pagina, si coglie anche una trama (che si forma per indizi, per accenni) e si definiscono vari personaggi di forte impronta medioevale: insieme a Zanebono troviamo infatti la Morte, prima interlocutrice, e poi Sanna, la donna della locanda; Uliva, la sua protetta “volto smunto di bambina, occhi grandi chinati sul ventre gonfio” che incontra, col figlio in grembo, la Morte; Momo, il mendicante (finto) cieco e Bernardo, il mercenario assassino, suoi improbabili discepoli; poi Irina la pazza, la folla, lo zelante, il priore.
Tutto e tutti vanno a formare uno scenario e delineano una vicenda che si definiscono, nella mente del lettore, passo passo per frammenti, sprazzi, cadute e illuminazioni ... lasciando infine come un interrogativo sospeso sul senso di ogni gesto e di ogni destino raccontato e descritto. In particolare sul senso del destino di Zanebono, del suo travaglio esistenziale che pare destinato a rimanere irrisolto.
“Porsi una domanda” scrive Abraham Joshua Heschel in apertura del suo libro Chi è l’uomo? “è un atto dell’intelletto; affrontare un problema coinvolge la totalità della persona. Una domanda scaturisce dalla sete di conoscere, ed esige una risposta; un problema riflette uno stato di perplessità, o di disagio, e postula non una risposta ma una soluzione (dal latino solvere, sciogliere, dissolvere)”.
Da questo punto di vista la vicenda di Zanebono narrata con finissima sensibilità (sia umana che letteraria) da Regoliosi, oltre a porci domande, ci presenta un problema. Anzi possiamo dire IL problema, quello esistenziale di sempre, che riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo.
L’autore ne è pienamente cosciente, e lo si capisce proprio perché, nel suo narrare la vicenda di “Giovanni il mendicante, Giovanni il buono, Giovanni la linguaccia che parla con la Morte”, lascia in sospeso non le domande, ma il problema ...
Il libro si chiude, coerentemente, non con uno, ma con tre epiloghi: il primo pare voler essere la riconciliazione con gli altri, l’immergersi nel mondo (il giullare), il secondo il ritrovare se stesso (il monaco) nella solitudine “monaco senza convento / giullare senza pubblico”; il terzo è il riconoscersi parte di un’umanità che trascorre nel tempo, immersi in un mistero che è sia religioso (riconosco il Tuo sguardo, Padre / sopra di me) che umano ed esistenziale (con stupore riscopro di aver figli / che san volare più in alto di me).
Data recensione: 27/03/2009
Autore: Carla Boroni