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In occasione del suo quarantennale, il 1968 è stato ampiamente riletto, cedendo per un verso alla tentazione di svilirne il significato e le ricadute socio-politiche, e, per l’altro, all’acritica elegia dei suoi profili ideali.

In occasione del suo quarantennale, il 1968 è stato ampiamente riletto, cedendo per un verso alla tentazione di svilirne il significato e le ricadute socio-politiche, e, per l’altro, all’acritica elegia dei suoi profili ideali. “Rovesciare” il ’68, in particolare, è diventato abusato slogan per depauperare le istanze della contestazione contrapponendovi l’afflato di libertà che la caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha diffuso in tutto il pianeta. Ma queste sono letture storiche animate da una vis polemica debolmente aderente a una seria genealogia delle correnti di pensiero che uniscono, pur nelle differenze e talvolta provenendo da filoni di pensiero opposti, anni la cui caratura simbolica non può essere espunta tout court dal patrimonio dell’Occidente. Il che è altro dal cristallizzarne i contenuti nella produzione serializzata di mitologie che indirettamente avallino la tesi espressa da Fukuyama circa la “fine della storia”, come se le sfide globali che oggi travolgono certi istituti del liberalismo non rappresentino un motore del cambiamento, ancorché privo di un respiro collettivo-partecipativo a causa della mancanza di credibili guide politiche. Forte di un severo e disincantato sguardo sulle dinamiche umane che accompagnano, pur con le modalità spiazzanti dell’era di Internet, il fluire degli avvenimenti, il libro di Breschi si sottrae a un’interpretazione devota all’esigenza narcisistica di intervenire nel dibattito scientifico al solo scopo di aggiungere una voce aprioristicamente schierata nella celebrazione del 1968. Focalizzando l’attenzione sull’Italia, l’autore è in merito apodittico: il ’68 costituisce una cesura epocale, un momento di svolta nella storia politica, sociale e culturale del nostro Paese per essere lasciato in balia di invettive e plausi da consumare episodicamente, o da mettere in gioco per riequilibrare egemonicamente la versione che ha lungamente accompagnato la decifrazione di quegli anni. Le peculiari caratteristiche assunte in Italia da un fenomeno di estensione pressoché mondiale, rendono il ’68 un prezioso strumento per la comprensione del presente, per l’elaborazione di una memoria accomunante che aiuti le società tardo-moderne a risarcire nuovamente il tessuto delle relazioni civiche. Il lungo Sessantotto italiano, che Breschi declina come fenomeno in larga parte culturale, viene studiato attraverso disparate esperienze di stampo marxista, che ne favorirono sul campo tra le più variopinte (e crude) manifestazioni. Sebbene tra i fattori causali interni anche il multiverso cattolico calato nella temperie conciliare abbia rivestito primaria importanza, il marxismo riuscì a imporsi come la più pura ideologia dell’antagonismo politico, sia nelle realtà occidentali che in quelle del cosiddetto Terzo mondo. Un marxismo trasformato creativamente, innervandolo di quella dimensione onirica che alle sinistre istituzionali, in Italia come in Francia, fu rimproverato di avere isterilito, sclerotizzato, nella passiva attesa di una rivoluzione agitata quale mero artificio retorico dai vertici di partito. Nella politica di massa, i movimenti sorti negli anni Sessanta dettarono l’agenda del rinnovamento, puntando spesso a traghettare la “fantasia al potere”, in maniera spesso caotica, come antidoto all’organizzazione capitalistica di una società travolta dal boom economico dei “trenta gloriosi”, ma incapace di strapparsi di dosso costumi sessisti e alle prese con paurosi squilibri che in Italia, per dirla con Salvadori, «non trovarono una gestione politica in grado di guidarli e disciplinarli »1. Nonostante i timidi tentativi riformatori del centro-sinistra a inizio anni Sessanta, il fermento del marxismo in tutte le sue componenti non cessò di alimentare nelle masse lavoratrici la persuasione che le disuguaglianze fossero da imputare alla natura capitalistica del sistema e che esse potessero venir superate unicamente avviandosi verso un compiuto socialismo. L’eco di vittoriose battaglie “anti-coloniali” e “anti-imperialistiche” riuscì a mettere la sordina alle rivelazioni sui crimini commessi da Stalin e alle scelte repressive dell’Unione Sovietica in Ungheria prima e Cecoslovacchia poi, creando, a livello di aspettative per la modernizzazione del paese, un notevole attrito con le stantie alchimie coalizionali praticabili in Parlamento, appesantite dalla patina di inevitabilità derivante dalla conventio ad excludendum nei confronti del PCI, dettata dalla collocazione di campo dell’Italia nella scacchiera geopolitica di Yalta. Se il Sessantotto italiano produsse un’appendice decennale che lo differenziò notevolmente dalle fiammate registrate altrove, vi è un anno “indimenticabile” a partire dal quale ne furono edificati i presupposti: il 1956. Il rapporto segreto di Kruscëv e i carri armati sovietici inviati a reprimere le aspirazioni “sediziose” dei compagni ungheresi funsero da detonatore per la sinistra italiana, intaccando l’unità d’azione quasi “frontista” tra socialisti e comunisti vissuta in nome del comune impegno anti-fascista e anti-borghese, e rilanciarono numerosi progetti di ricerca tesi a rinnovare, ancor più della prassi parlamentare, le basi teoretiche di Marx, Engels, Lenin. In verità, al fondo bisogna registrare la crisi del Partito comunista, che, pur senza mai soffrire arretramenti nelle urne, era in preda a un’emorragia di iscritti, a un affievolimento della militanza sulla quale aveva costruito buona parte della propria “diversità”. Al tempo stesso il PSI, afflitto dalla piaga di un inveterato scissionismo, risultò incapace di trasformare la propria morfologia, rimanendo in mezzo al guado tra le spinte autonomiste e il culto della comunanza d’intenti con il partito togliattiano, dunque non sviluppando con grammatiche adeguate ai tempi i messaggi giunti dall’Est e da altre lotte per i diritti civili. A ciò si aggiunga un processo di industrializzazione spesso forzata nei modi e nei ritmi dallo Stato, che spaccò letteralmente il paese in due, lasciando irrisolte le contraddizioni della “questione meridionale” e innescando una fitta costellazione di conflitti quasi esclusivamente nelle realtà produttive del “triangolo industriale”. Solamente il vertiginoso aumento delle immatricolazioni all’Università, reso possibile nel 1965 dall’abolizione del numero chiuso e degli esami di ingresso, estese geograficamente la dialettica del conflitto, pur in una caratterizzazione dello stesso che non giunse mai alla completa saldatura tra protesta operaia e ribellione studentesca, lasciando i due universi parzialmente impermeabili, impegnati nel generico intento di abbattere il “sistema”. Malessere operaio e contestazione studentesca vengono interpretati dall’autore come fenomeni radicalmente diversi, motivando tale convincimento in primis con la non sovrapponibile composizione cetuale dei rispettivi attori, nonché sottolineando i divergenti obiettivi dichiarati. Le fibrillazioni che agitarono le grandi fabbriche ben prima dell’esplosione del ’68 studentesco sono immortalate come la rivolta di leve operaie molto giovani, non di rado catapultate dalle campagne del Mezzogiorno in contesti urbani fonte di alienazione ed estraniamento, e quindi spinte alla mobilitazione mediante il grimaldello dello sciopero per la mera aspirazione a una vita in grado di suggere dalle ammalianti offerte del capitalismo una piccola opportunità di partecipazione all’ubriacatura consumistica. Tali desideri, scevri da un compiuto percorso di critica allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo anche tra alcuni iscritti al PCI e parecchi quadri sindacali, trasmette molto finemente, senza ridondanti conati polemici, il giudizio di Breschi sulle elaborazioni e i propositi delle correnti operaiste, passate in rassegna attraverso un bilanciato ricorso alla documentazione storica e iconografi ca. Differenti, come accennato, i tratti del movimento studentesco, il carattere strumentale delle cui rivendicazioni, aventi quale primario obiettivo le riforme contenute nel “piano” del ministro democristiano Luigi Gui, sortirono tuttavia l’effetto di ridestare dal proprio torpore il PCI. La “strategia dell’attenzione” alla galassia degli studenti in ebollizione, sposata dopo non poche titubanze dal Segretario Longo, permise alla più ramificata agenzia politica della sinistra italiana, a lungo ritrovatasi scavalcata da un extra- parlamentarismo anarcoide in grado di lederne taluni pilastri ideali, di guidare la radicalizzazione delle lotte, accostando alla linea “legalitaria” adottata sin dal dopoguerra un ringiovanimento della propria dirigenza, che ne alimentò il dinamismo, premiato dalla crescita elettorale culminata con l’affermazione del 1976. Fu un mutamento di rotta, quello del PCI, che Breschi, accodandosi alle tesi di Rossana Rossanda, data al convegno degli studenti comunisti svoltosi alle Frattocchie tra il 16 e il 18 febbraio del 1968, ma che, trascendendo le scelte effettuate al fine di non far lievitare l’accusa di “socialdemocratizzazione” del partito, già rivolta implacabilmente ai cugini socialisti dopo l’ingresso nella “stanza dei bottoni”, poggiava sulle spalle di un timido rimescolamento sociale registrato in Italia e sull’esigenza di costruire materialmente il futuro attraverso riferimenti intellettuali in grado di liberare il marxismo-leninismo dalla cappa asfissiante dell’ortodossia imposta. Ecco spiegato il successo riscosso da Marcuse o l’infatuazione per la “via nazionale” al socialismo battuta dalla Cina di Mao. L’anelito libertario e lo spirito partecipativo della contestazione giovanile, arroccati rivoluzionariamente dietro cornici ideologiche incapaci di meticciarsi con diverse culture politiche, appaiono oggi come processi la cui degenerazione, ostacolandone la compiuta maturazione e l’ingresso nei meccanismi del gioco politico, spiegano il ritardo dell’Italia nel trasformare l’atavica tendenza consociativa e trasformistica in una cittadinanza attiva in grado di affrontare a viso aperto le sfide della “società mondiale del rischio” teorizzata dal sociologo tedesco Ulrich Beck. In tale ottica, lo studio di Breschi, proprio in virtù di un approccio alla memoria della “contestazione globale” tendenzialmente diffidente verso il tramestio passionale che innerva(va) la politica ma profondamente democratico ed esigente con la quotidiana attivazione dei diritti e dei doveri, può fornire utili spunti di riflessione per arrestare la slavina nichilista che travolge società alla ricerca di una pacificazione della propria atomizzazione attorno a temi coinvolgenti e responsabilizzanti.
Data recensione: 01/12/2008
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Alessandro Lattarulo