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La settimana scorsa ho sostenuto che il libro di Anna Bravo sul Sessantotto pubblicato da Laterza nel 2008 si

La settimana scorsa ho sostenuto che il libro di Anna Bravo sul Sessantotto pubblicato da Laterza nel 2008 si sofferma (giustamente, a mio parere) sull’effetto che quel movimento ha avuto sui costumi, ma non abbastanza sulle ideologie che accompagnarono e all’epoca soffocarono la rivendicazione e la pratica di un modo più libero, più egualitario e anche un po’ anarchico di stare al mondo. Nello  stesso anno è uscito "Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del Sessantotto" di Danilo Breschi: si tratta di una ricerca che colma il vuoto storiografico su questo aspetto del Sessantotto e che compensa la lacuna evidenziata nell’opera di Anna Bravo. Breschi realizza con questa indagine un’opera della quale si sentiva la mancanza: un’opera seria, accurata, mossa da un’ipotesi di ricerca, desiderosa di trovare documenti poco visti (oggi) e di discuterli senza idee preconcette, un’opera davvero eccellente. E se alla fine diremo che cosa di questo libro non ci convince, è più per fare il nostro mestiere di avvocato del diavolo (senza il quale gli autori di recensioni sono o noiosi o di parte, anche se non lo dicono apertamente) che perché al suo lavoro troviamo davvero qualche difetto.
Tutto è indovinato e ben ragionato, a partire dal titolo: è vero, infatti, che chi ha partecipato a quegli anni ricorderà quel sogno – nebuloso ma indiscutibile – di rivoluzione nel quale si credeva. Il fatto che il mutamento fosse vago e dai tratti perfino contraddittori non toglieva nulla alla sua esistenza, al peso reale e forte che esercitava, che ha esercitato per un certo numero di anni. Breschi coglie l’obiettivo anche quando decide di rintracciare quando inizia il Sessantotto nella storia italiana: e lo colloca nei primi anni ’60, più esattamente nei fatti di piazza e nelle repressioni (gli uni e gli altri con numerosi feriti) innestati dall’episodio di Genova (congresso nazionale del MSI da tenersi a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza; la decisione fu avallata dal Presidente del Consiglio Tambroni: ne seguirono  violente contestazioni che innescarono un effetto a catena) che culminano nella manifestazione del luglio 1960 a Catania. Questa, a suo parere, rappresenta la svolta decisiva, l’occasione di una radicalizzazione delle proteste, della alleanza inedita tra studenti e operai, della consapevolezza da parte del PCI e della FGCI di ciò che stava accadendo, della emersione di una riflessione di tipo operaista: si trattava di una spaccatura soprattutto all’interno della storia della sinistra, che per la prima volta dalla Resistenza si trovava di fronte a qualcosa che rischiava di sfuggirle di mano. Così vengono analizzati episodi politici tra fine anni ’50 e inizio ’60, autori oggi non più letti come Mario Tronti, Raniero Panzieri, e l’intramontabile Toni Negri che riesce a passare attraverso tutte le stagioni della nostra politica rimenendo sempre in piedi. Si ricostruisce quella cultura politica fatta di anti-riformismo “viscerale” (come proprio Negri lo ha definito con efficacia), lotta sociale attorno al soggetto classe operaia esaltato e mitizzato, lettura classista della realtà italiana, della situazione internazionale e dello scontro in atto. E’ in questa cultura che il Sessantotto prende forma e si nutre di concetti, idee, progetti, finalità.
Per contro, in questo libro mancano tutti gli aspetti del Sessantotto e della sua non monolitica esistenza che rinviano a quel mutamento nei costumi al quale invece il volume di Anna Bravo dedica attenzione. Ma si tratta di una scelta, che Breschi ha fatto preliminarmente e alla quale si attiene con rigore (salvo in un punto che segnaleremo alla fine): sa bene che i gruppi contenevano entrambi gli aspetti, si rende conto che i giovani che scendevano in piazza a protestare lo facevano per la doppia ragione che si doveva abbattere la scuola borghese e che si dovevano trasformare radicalmente i rapporti dei giovani con la famiglia, la scuola, il potere. Ma concentra la sua attenzione sulle ideologie messe in campo. Da quelle ideologie, dallo loro ricostruzione e analisi, emerge che si pensava, sulla base di una ideologia composita che andava dal marxismo ortodosso al trotzkismo all’anarchismo attraverso il maoismo e con tutte le eterodossie possibili e immaginabili, a una rivoluzione, a un mutamento radicale dell’ordine sociale: di quella trasformazione anche violenta gli studenti in piazza avrebbero dovuto, insieme agli operai, rappresentare l’avanguardia consapevole, secondo il principio leninista della presa del potere guidati da un partito che contenesse la parte più avanzata della classe operaia.
Veniamo ora alle perplessità. La prima riguarda il rapporto tra Sessantotto inteso come mutamento nei costumi e Sessantotto inteso come ideologia politica. Breschi afferma a più riprese la compresenza nel Sessantotto di aspirazioni a una maggiore libertà individuale e a una rivoluzione nei costumi, da un lato, e di una “rivoluzione politica simil-bolscevica” dall’altro. Ne nota la contraddizione: un rivoluzionario di professione non può aspirare a “vivere meglio” in un capitalismo consumista come quello dell’epoca. Il fatto è che si trattava di due filoni separati e ben distinti fra loro: essi si intrecciano talvolta, ma restano due fenomeni ben diversi anche se contigui. Di fatto, danno anche luogo a una eredità ben differenziata.
La seconda perplessità riguarda il ruolo del PCI in tutto questo: chiaro che per il partito maggiore della sinistra in lotta perpetua con il Partito socialista, quegli avvenimenti e quelle proteste rappresentassero una parte della scena politica alla quale non poteva assolutamente rinunciare; chiaro che vi furono discussioni interne (oggi note grazie alle memorie di alcuni grandi vecchi come Vittorio  Foa). Quello che convince meno è l’idea che il PCI pensasse di finalizzare gli eventi e gli scontri in corso per suoi fini particolari e relativi alla sua strategia partitica nell’Italia di quegli anni. Breschi afferma che il PCI si rese conto perfettamente di ciò che stava accadendo (io ne sono assai meno convinta): ma se fosse così, non poteva non rendersi conto che il movimento composito del Sessantotto non era dirigibile. Si poteva in astratto metterci sopra il proprio cappello per non perdere terreno e faccia di fronte all’elettorato, ma era anche chiaro che uno degli obiettivi polemici del Sessantotto era proprio il Partito comunista con la sua burocrazia, il suo riformismo, il suo inserimento nel sistema parlamentare, la sua mancanza di nettezza e di coraggio, la sua discontinuità con la lotta armata partigiana. Difficile pensare che quei ragazzi potessero mai fidarsi del PCI e gli affidassero il risultato politico delle lotte intraprese. Sarà anche vero che il PCI del 1968 era in sintonia con i giovani ed era un partito anti-sistema, come Breschi afferma: ma il segretario era Luigi Longo (in sintonia!?), e il fatto che fosse anti-sistema non era percepito affatto, né al suo interno né fuori di esso. Questa era piuttosto l’immagine che il PCI voleva accreditare di se stesso in quel momento.
Non si deve dimenticare, infatti, che è giustissimo andare a ripescare e a leggere i teorici, che predicevano scontri a livelli sempre più alti, strategie di lungo periodo, la centralità della classe operaia nella società e nelle istituzioni: ma i giovani che marciavano avevano in mente non qualcosa di precisamente definibile, ma piuttosto un cambiamento dai contorni molto sfumati. Esso doveva essere egualitario, libertario, oppure disciplinato e un po’ moralista, a seconda dell’ideologia che si seguiva, ma era poi difficile tradurre in positivo quello che si immaginava confusamente: era importante più che altro protestare, negare, farsi sentire. Inoltre, occorre tenere presente che il filone dell’operaismo identificato così bene da Breschi è solo uno dei filoni ideologici che erano presenti nel Sessantotto: non lo esaurisce affatto. Il Sessantotto è un movimento assai composito, e non sbaglia chi vi ritrova psicoanalisi, Francoforte in salsa americana, strutturalismo, microfisica del potere, marxismo ortodosso ed eterodosso di ogni epoca e paese e perfino professioni di religiosità non convenzionale.
Con un’altra tesi non siamo perfettamente concordi: secondo Breschi il Sessantotto italiano traduce in movimento di protesta questa cultura politica (l’operaismo) già presente in Italia e non ha molti rapporti con gli altri Sessantotto che fioriscono nel mondo. Non ne siamo del tutto convinti. Si può pensare che il Sessantotto faccia proprio il contrario: introduce in Italia, traducendola, la protesta che si verifica un po’ ovunque.
Detto tutto questo, riconosciamo che questa analisi di Breschi era necessaria: perché finora nessuno aveva messo mano dal punto di vista della storia delle ideologie a questo tema, perché isola con esattezza un segmento dell’’deologia del Sessantotto, perché è pensata con intelligenza e realizzata con cura. A questa se ne dovrebbero aggiungere altre a far luce su altri coni d’ombra ricchi di significato e ancora da esplorare: c’è da augurarsi che questo avvenga in un futuro non troppo lontano.  
Danilo Breschi, Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del Sessantotto, Firenze, Pagliai, 2008, pp. 267, euro 15.Michela Nacci
Data recensione: 02/11/2008
Testata Giornalistica: L’Occidentale
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